lunedì 21 dicembre 2015

LECTIO: IL FARISEO E IL PUBBLICANO

Lectio divina su Lc 18,9-14


Invocare
O Dio, tu non fai preferenze di persone e ci dai la certezza che la preghiera dell’umile penetra le nubi; guarda anche a noi come al pubblicano pentito, e fa’ che ci apriamo alla confidenza nella tua misericordia per essere giustificati nel tuo nome. Per Cristo nostro Signore. Amen.

Leggere
9 Disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l'intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: 10 «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l'altro pubblicano. 11 Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. 12 Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo». 13 Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore». 14 Io vi dico: questi, a differenza dell'altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

Un momento di silenzio meditativo perché la Parola possa entrare in noi ed illuminare la nostra vita.

Passi utili alla meditazione
Rm 3,10; Sal 143,2; Is 32,12; 64,6; Lc 1, 46-55; 3, 12; 5,30; 15,1; 19,2; 23,27.48; Mt 6,1-6; 9,13; 21,31-32; 23,12.23.28; 24,30; Gal 6,4; 1Pt 5,5-9; Prv 29,23; Ap 1,7.

Capire
Quella del fariseo e del pubblicano è una parabola, che si pone in modo ambiguo al suo lettore. Essa, infatti, assieme alla parabola del giudice iniquo e della vedova (18,1-8), che immediatamente la precede, forma una sorta di piccola catechesi sulla preghiera, che deve essere persistente (18,1-8), umile e fiduciosa (18,9-14). Due parabole che, a loro volta, sono in qualche modo agganciate al breve discorso apocalittico (17,20-37), che le precede. Un aggancio che avviene sul tema della venuta del Signore e del giudizio (18,7-8) e della giustificazione (18,14a); e che vede nella preghiera assidua, umile e fiduciosa il giusto atteggiamento di attesa vigilante verso il Signore che viene (17,24.30).
Possiamo riassumere così: la parabola della vedova importuna è centrata sulla perseveranza perseveranza con cui portare avanti la preghiera: si deve pregare sempre, senza stancarsi, con la pazienza della fede.
La parabola dell'amico importuno esorta poi ad una preghiera fatta con fiducia: “Bussate e vi sarà aperto”. A colui che prega così, il Padre del Cielo “darà tutto ciò di cui ha bisogno”, e principalmente lo Spirito Santo che contiene tutti i doni.
La presente parabola, infine, invita a pregare con umiltà di cuore: “O Dio, abbi pietà di me, peccatore” e fare nostra la preghiera del pubblicano.
Tuttavia Luca qui non si limita al tema della preghiera, che deve alimentare il tempo di un'attesa vigilante, ma affronta anche quello della giustificazione, mettendo in rilievo il giusto atteggiamento per ottenerla (v.14a). Lo fa contrapponendo tra loro due comportamenti antitetici, presi dal mondo del giudaismo, senza tuttavia, come si è detto, voler innescare polemiche nei suoi confronti, non almeno in modo aperto. Il fariseo e il pubblicano, infatti, sono soltanto due figure tipo, due parametri con cui raffrontarsi, quasi due caricature, ma proprio per questo immediatamente coglibili dal lettore. Esse svolgono bene il loro ruolo pastorale all'interno di un raccontino, molto avvincente, incisivo e convincente.

Meditare
v. 9:  Disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l'intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri.
Il versetto ha lo stile da introduzione e ne viene spiegata la motivazione da Gesù stesso: “per alcuni che avevano l’intima presunzione”. C’è in alcuni una eccessiva fiducia in se stessi, una presunzione di essere giusti. Questo sarebbe una loro questione di coscienza, bisogna aggiungere che disprezzano gli altri.
Chi erano effettivamente questi “alcuni”, a chi in particolare erano indirizzate queste parole? Non certo a quella folla di persone che accorrevano per sentirlo parlare, e che nelle sue parole trovavano conforto e guarigioni, può darsi a qualche nuovo seguace che pensava di appartenere finalmente ad un gruppo che gli garantiva la salvezza per il solo fatto di esserci dentro; di certo la parabola viene indirizzata a quel partito giudaico dei farisei, composto da laici che appartenevano a tutte le categorie sociali, compresi gli scribi o dottori della legge. Ma la parabola non è indirizzata a tutti i farisei. Li ricordiamo, infatti come coloro che coltivavano lo studio e la devozione della scrittura, e lo sforzo di metterla in pratica con l’osservanza metodica dei suoi precetti che doveva regolare tutti gli aspetti della vita privata e pubblica del pio ebreo. “Giusto”, era colui che viveva quindi questo modello di pietà religiosa.
Paolo stesso, parlando della propria educazione, vanterà l’origine farisaica: «Fariseo quanto alla Legge... irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della Legge» (Fil 3,5-6). L’errore fondamentale di questo fariseo consiste nel negare la giustizia di Dio, pensando di riconoscere giustizia ed empietà da se stesso.
v. 10: Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l'altro pubblicano.
La cornice della parabola è formata dal Tempio e da quanti vi salgono, in particolare due personaggi, la cui definizione Luca dosa con gradualità, andando dal generico allo specifico.
Si parla di due persone per dare possibilità a tutti di riconoscersi in loro. Questi poi salgono al Tempio a pregare e questo restringe il campo verso le persone pie e devote, appartenenti al mondo giudaico. Si parla, infatti, di Tempio, di preghiera e di salire. Tutto ciò fa pensare al Tempio di Gerusalemme, posto ad un'altezza di circa 750 mt sul livello del mare, e presso il quale il pio israelita si recava almeno una volta all'anno e, là dove possibile, anche quotidianamente per la preghiera ufficiale (At 2,46; 3,1; 5,42) che si svolgeva due volte al giorno, all’ora terza (09,00 del mattino) e all’ora nona (15,00 del pomeriggio).
Infine i due uomini vengono tipizzati nella figura di un fariseo e in quella di un pubblicano.
Le due figure hanno in comune il loro essere uomini, il loro salire al Tempio e il loro intento è di pregare il loro unico e comune Dio. Ciò che li differenzia è la loro posizione sociale e il loro diverso modo di intendere il proprio rapporto con Dio, che nasce da una diversa coscienza di se stessi, da una diversa esperienza di vita e da una diversa percezione di Dio.
vv. 11-12: Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo».
Il fariseo viene presentato in piedi, nell’atrio degli Israeliti, in prospettiva del "santo dei santi" che vede da vicino attraverso la porta che conduce nell’atrio dei sacerdoti dove si svolge il culto.
Stare in piedi davanti al Signore indica la dignità dei figli, ai quali il Padre loro che li chiama, lo permette. Egli dunque sta davanti al suo Signore, invisibile Presenza nel santuario, dal quale promette ogni grazia, come parla l’intero Salterio. E prega silenziosamente. Un’azione di grazie, eucharìstò soi, io rendo grazie a Te: è la sua Eucarestia (cfr. Lc 17,16: un solo lebbroso ringrazia).
Nelle parole del fariseo abbiamo una preghiera che non risulta del tutto inedita. Infatti, ricalca un modulo talmudico che recita così: "Ti ringrazio, Signore mio, per avermi fatto partecipare alla compagnia di coloro che siedono nella casa d’insegnamento, e non a quella di coloro che siedono nell’angolo della strada; infatti come loro mi metto in cammino; ma me ne vado verso la Parola della Legge, e questi, invece, vanno in fretta verso cose futili. Mi do da fare, e anche quelli si danno da fare: mi impegno e ricevo la mia ricompensa; ed essi si impegnano, ma non ricevono alcuna ricompensa. Corro e corrono essi; corro verso la vita del mondo futuro ed essi corrono verso la fossa della perdizione".
Del fariseo, l’evangelista Luca dice che: "pregava così tra sé". Qui occorre notare un problema di traduzione, che non ci permette di entrare dentro il significato originale delle parole di Luca; detto così sembrerebbe che il fariseo stia pregando nel suo intimo, cioè senza esprimersi ad alta voce, come in una sorta di preghiera mentale. Il testo greco invece utilizza un'espressione diversa, che si potrebbe tradurre così: "il fariseo stando in piedi pregava rivolto verso se stesso".
Il fariseo è nella condizione interiore di coloro che quando pregano fanno un monologo, ossia una preghiera che non ha Dio come interlocutore ma se stessi, il che è uno dei maggiori rischi dell'esperienza della preghiera. Nella preghiera-monologo si cela un inganno: si può pensare di aver pregato, e si può persino esserne convinti, mentre in realtà ha solo parlato con se stesso.
L'espressione va dunque intesa così: “il fariseo, stando in piedi, pregava parlando con se stesso”. Le parole riportate successivamente, come contenuto del suo pregare, dimostrano che le cose stanno davvero così. Si tratta di una preghiera che ruota intorno al proprio io.
v. 13: Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore».
Il pubblicano, cioè colui che è pubblico peccatore, viene presentato come un “possessore di una coscienza”. Tre sono i suoi movimenti: si ferma a distanza; non osa alzare gli occhi; si batte il petto. Egli sa guardare nell’intimo del suo cuore e lì scopre di non essere a posto con il Signore e per questo nella sua grande umiltà gli chiede elemosina: abbi pietà di me, perdono e misericordia, riconoscendosi dinanzi a lui peccatore. È l’umiltà che vige nel pubblicano!
Nell’umiltà si vede solo la grandezza, la magnificenza, la gloria del Signore; nell’umiltà, la povertà messa a confronto con la luce che si irradia da Dio, tiene a distanza l’uomo dal suo Creatore. Non si può nell’umiltà che elevare un grido di perdono, di misericordia, di implorazione di pietà. È questo il vero rapporto tra Dio e l’uomo, perché veramente chi può dirsi giusto dinanzi a Dio e alla sua Parola, dinanzi alla sua divina volontà manifestata a noi perché noi la compiamo e la osserviamo fedelmente?
Dio è troppo grande, troppo in alto, troppo giusto, troppo santo perché l’uomo possa dichiararsi meritevole ai suoi occhi. La distanza è sempre infinita, l’abisso è incolmabile. Ecco perché bisogna accostarsi al suo trono di grazia solo alla maniera del pubblicano, perché nel cuore, in fondo, siamo pubblicani: O Dio, abbi pietà di me, peccatore.
v. 14: Io vi dico: questi, a differenza dell'altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».
Gli effetti sono devastanti per l’uno in quanto se ne ritorna a casa condannato, con due peccati in più, di giudizio e di superbia; mentre l’altro vive un momento di vera e salutare penitenza; Dio gli accorda il perdono per i suoi peccati.
Questo avviene quando il nome di Gesù Cristo diventa il centro di una vita, non si pensi che la sua invocazione sia una via breve che dispensi dalle purificazioni ascetici e da tutti gli altri sforzi. Il nome di Gesù in realtà è uno strumento un filtro attraverso il quale devono passare soltanto i pensieri, gli atti, le parole compatibili con la realtà vivente che esso simbolizza. Una specie di infatuazione della storia ha messo in discussione tutte le istituzioni, ma soltanto il vangelo, divenendo in Cristo annuncio e potenza dello spirito di vita, può guidare verso il superamento della zavorra sociologica per essere in grado di rispondere alla crisi spirituale.
Nell’uomo che torna a casa giustificato possiamo leggervi il cantico di Maria che si concretizza: Il Signore abbassa i superbi, mentre innalza gli umili dalla polvere. Le parole di Gesù rivelano l’agire di Dio. Dio non si compiace dei superbi e li abbassa; dinanzi a Dio non c’è grandezza, non c’è saggezza, non c’è intelligenza; dinanzi a lui deve esserci solo umiltà, conoscenza del proprio essere e delle proprie miserie e debolezze.
Nel momento in cui l’uomo si riconosce quello che realmente è, riconosce anche tutto ciò che Dio ha fatto per lui e quando un uomo dona a Dio tutta la gloria della propria redenzione e salvezza, Dio si compiace e concede la grazia di una più grande misericordia.
L’umiltà è la sua nuova Eucarestia perché è la virtù più cara a Dio, poiché in essa lui è visto per quel che è e per quel che fa; l’uomo è visto per quel che non fa e per quel che si è fatto a causa delle sue molteplici trasgressioni e non osservanze della legge della salvezza. Si china dinanzi alla divina Maestà e chiede quell’ulteriore aiuto, perché possa migliorarsi nella sua condotta di vita, ascendendo verso un più grande compimento della parola di Dio, che in verità è sempre inadeguato.

La Parola illumina la vita
Dopo le parole di Gesù ho ancora motivo di pensare che il mio peccato mi renda impresentabile davanti a Dio, escluso per sempre dalla sua misericordia? 
Mi rivolgo a Dio con umiltà e fiducia, oppure pretendo la sua grazia senza disponibilità a cambiare la mia vita?
È anche per me questa parabola? Rischio a volte di voler accampare particolari meriti per cui Dio deve riconoscermi giusto, come io stesso mi giudico?
Mi chiedo ancora: io, rispetto a questa parabola, dove mi colloco?

Pregare
Benedirò il Signore in ogni tempo,
sulla mia bocca sempre la sua lode.
Io mi glorio nel Signore:
i poveri ascoltino e si rallegrino.

Il volto del Signore contro i malfattori,
per eliminarne dalla terra il ricordo.
Gridano e il Signore li ascolta,
li libera da tutte le loro angosce.

Il Signore è vicino a chi ha il cuore spezzato,
egli salva gli spiriti affranti.
Il Signore riscatta la vita dei suoi servi;
non sarà condannato chi in lui si rifugia. (Sal  34, 2-3.17-19.23).

Contemplare-agire
La parabola è un invito a salire il monte giusto, piuttosto che a fare la preghiera giusta, invito a essere davanti al Dio che è solo il Dio crocifisso di Gesù. Non si tratta di fare una preghiera umile, ma di essere davanti all’Umiliato. Umiliati con l’Umiliato, per essere esaltati con Lui.