domenica 26 luglio 2020

IL GRANDE CONVITO

Lectio divina su Lc 14,15-24

Invocare
Dio onnipotente e misericordioso, tu solo puoi dare ai tuoi fedeli il dono di servirti in modo lodevole e degno; fa’ che camminiamo senza ostacoli verso i beni da te promessi. Per Cristo nostro Signore. Amen.

Leggere
15 Uno dei commensali, avendo udito questo, gli disse: "Beato chi prenderà cibo nel regno di Dio!". 16 Gli rispose: "Un uomo diede una grande cena e fece molti inviti. 17 All'ora della cena, mandò il suo servo a dire agli invitati: "Venite, è pronto". 18 Ma tutti, uno dopo l'altro, cominciarono a scusarsi. Il primo gli disse: "Ho comprato un campo e devo andare a vederlo; ti prego di scusarmi". 19 Un altro disse: "Ho comprato cinque paia di buoi e vado a provarli; ti prego di scusarmi". 20 Un altro disse: "Mi sono appena sposato e perciò non posso venire". 21 Al suo ritorno il servo riferì tutto questo al suo padrone. Allora il padrone di casa, adirato, disse al servo: "Esci subito per le piazze e per le vie della città e conduci qui i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi". 22 Il servo disse: "Signore, è stato fatto come hai ordinato, ma c'è ancora posto". 23 Il padrone allora disse al servo: "Esci per le strade e lungo le siepi e costringili ad entrare, perché la mia casa si riempia. 24 Perché io vi dico: nessuno di quelli che erano stati invitati gusterà la mia cena"".

Dentro il Testo
Il brano è inserito nel contesto dell'invito che Gesù ebbe dal fariseo (Lc 14,1) e segue immediatamente quella duplice dell’invitato e dell’invitante (14,7-14), usando ancora l’immagine del banchetto. 
In questi versetti, Gesù racconta la parabola del banchetto. Molta gente era stata invitata, ma la maggior parte non andò. Il padrone della festa rimase indignato per l’assenza degli invitati e mandò a chiamare poveri, storpi, ciechi e zoppi. E nonostante questo c’era ancora posto. Allora ordinò di invitare tutti, fino a che la casa fosse piena. Questa parabola era una luce per le comunità del tempo di Luca.
Nelle comunità del tempo di Luca c’erano cristiani, venuti dal giudaismo e cristiani venuti dai gentili, chiamati pagani. Nonostante le differenze di razza, classe e genere, loro vivevano a fondo l’ideale della condivisione e della comunione (At 2,42; 4,32; 5,12). Ma c’erano molte difficoltà perché alcune norme di purezza formale impedivano ai giudei di mangiare con i pagani. E pur dopo essere entrati nella comunità cristiana, alcuni di loro conservavano questa vecchia usanza di non sedersi a tavolo con un pagano. Per questo Pietro entro in conflitto con la comunità di Gerusalemme per essere entrato a casa di Cornelio, un pagano, e per aver mangiato con lui (At 11,3). Dinanzi a questa problematica delle comunità, Luca conservò una serie di parole di Gesù nei riguardi del banchetto (Lc 14,1-24). La parabola che qui meditiamo è un ritratto di ciò che stava avvenendo nelle comunità. Nella parabola, Luca afferma chiaramente che questi giudei convertiti non erano infedeli al loro popolo. Anzi! Loro sono gli invitati che accettarono l’invito. Loro sono i veri eredi di Israele. Infedeli sono stati coloro che non hanno accettato l’invito e non hanno voluto riconoscere in Gesù il Messia (Lc 22,66; At 13,27).

Meditare
v. 15: Uno dei commensali, avendo udito questo, gli disse: Beato chi prenderà cibo nel regno di Dio!
Nell'AT, il Regno di Dio era descritto come un grande convito preparato da Dio, caratterizzato dalla gratitudine e dalla comunione (cfr. Is 25,6ss; Sal 22,27).
Qui un commensale, dopo aver colto la portata dell'insegnamento di Gesù, esprime una beatitudine. Certo quando siamo riuniti attorno a una tavola, è segno di condivisione. Ora se si condivide il pane, di cui Gesù sta parlando, se insieme a lui è occasione per farlo figuriamo nel Regno di Dio.
In questo contesto nasce una parabola che fa vedere il banchetto secondo la logica di Dio.
vv. 16-20: Gli rispose: "Un uomo diede una grande cena e fece molti inviti. All'ora della cena, mandò il suo servo a dire agli invitati: "Venite, è pronto". 
Gesù risponde al commensale con una parabola. Il banchetto è pronto e un uomo fa i suoi inviti. L'invito è segno di una relazione. Quest’invito era fatto tramite un servo, che informava che il banchetto è già pronto (cfr. Est 6,14). Il banchetto preparato da Dio è sempre pronto, è in mezzo a noi (cfr. 2Cor 6,2). 
Questo banchetto indica una novità. È l'ora. I tempi sono maturi, quello che era una promessa, quello che era un’attesa diventa finalmente il giorno della festa. 
Ma tutti, uno dopo l'altro, cominciarono a scusarsi. Il primo gli disse: "Ho comprato un campo e devo andare a vederlo; ti prego di scusarmi". Un altro disse: "Ho comprato cinque paia di buoi e vado a provarli; ti prego di scusarmi". Un altro disse: "Mi sono appena sposato e perciò non posso venire". 
A quest'invito, che è una vera e propria chiamata, troviamo che ognuno scusa la propria assenza. Poteva quindi accadere che talvolta un invitato si scusasse, benché prima avesse accettato l’invito. Nell’ambito delle norme e delle usanze dell’epoca, quelle persone avevano il diritto di non accettare l’invito (cfr. Dt 20,5-7).
Ma il problema è un altro. Il punto è proprio se è vero che davanti a Dio ci sono delle istanze personali in cui posso fare precedere il mio io, un io che sa in qualche modo un campo da vendere, degli strumenti per lavorare il campo e appunto lo sposarsi, prendere marito o moglie, sono motivi (pur ragionevoli) per anteporli alla chiamata di Dio; se dinanzi alla propria vita si può anteporre la propria esistenza, la propria sussitenza. 
Le scuse che vengono fatte riconoscono una relazione ma lasciano fuori la porta. "Non chi dice Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli" (Mt 7,21) ma chi si pone in relazione con Dio. 
v. 21: Al suo ritorno il servo riferì tutto questo al suo padrone. Allora il padrone di casa, adirato, disse al servo: "Esci subito per le piazze e per le vie della città e conduci qui i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi". 
Il rifiuto di un dono causa l'ira al padrone per questa durezza di cuore verso la relazione. Però l'invito rimane aperto nonostante il rifiuto. Dio però continua a inseguire l'uomo dove egli si trova, senza stancarsi. 
Questa volta la logica di Dio ci dice che l'invito è aperto a tutti. Non esistono classi sociali. Spesso il dono è rifiutato da colui che crede di avere una relazione con Dio. Ma Dio vuole tutti nella sua casa, attorno alla sua tavola. Così il padrone della festa ordina, con una certa urgenza, ai servi di invitare i poveri, i ciechi, gli storpi, gli zoppi. Coloro che normalmente erano esclusi perché considerati impuri, ora sono invitati a sedersi attorno al tavolo del banchetto.
Nell'AT Dio non sceglie Israele perché è un grande popolo ma perché è il più piccolo e così ogni scelta fatta successivamente. Avviene anche nella chiesa primitiva e Paolo scrive: «Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti. Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti; Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile, disprezzato, ciò che è nulla, per confondere chi presume» (1Cor 1,27).
Questo è il criterio di Dio!
vv. 22-24: Il servo disse: "Signore, è stato fatto come hai ordinato, ma c'è ancora posto". Il padrone allora disse al servo: "Esci per le strade e lungo le siepi e costringili ad entrare, perché la mia casa si riempia. Perché io vi dico: nessuno di quelli che erano stati invitati gusterà la mia cena"".
C’è ancora posto. La sala non si riempie. C’è ancora posto. Nella casa di Dio c'è sempre posto. È una relazione infinita quella che tesse (o vuole tessere) Dio. Ad Abramo Dio propone una immagine di relazione, di numero dei figli di Dio ma è un numero, un desiderio insaziabile (cfr. Gen 15).
Anche l'ultimo libro della Bibbia descrive un numero interminabile proveniente da varie parti del mondo (cfr. Ap 7). Questo grande desiderio esprime una casa sempre piena. 
Per farlo, il Vangelo dice che il padrone della casa ordina ai servi di invitare coloro che sono per la strada. Sono i pagani. Anche loro sono invitati a sedersi attorno alla tavola. Così, nel banchetto della parabola di Gesù, si siedono tutti attorno allo stesso tavolo, giudei e pagani. Al tempo di Luca, c’erano molti problemi che impedivano la realizzazione di questo ideale del banchetto comune. Mediante la parabola, Luca mostra che la pratica del banchetto veniva proprio da Gesù.
La parabola termina indicando che solo gli invitati, solo coloro che rifiutano il dono, non siedono alla mensa di Dio. Per sedersi a questa mensa, occorre avere il cuore di colui che è povero, storpio, cieco, zoppo e sta in un fosso fuori dalle mura della città. È solo con questo cuore che addirittura si è spinti ad entrare, invitati fortemente ad entrare e ripetere: "Io non sono degno, ero fuori e se sono qui è perché tu hai insisto, dì soltanto una Parola ed io sarò salvato”. 

La Parola illumina la vita e la interpella
Quale tipo di relazione ho con Dio?
Ho delle scuse per non accettare il suo invito, il suo dono?
Riesco a mettermi nella sua logica?
Accolgo gli esclusi, oppure sono tra quelli che si "dividono" in classi sociali?

Pregare
O voi tutti assetati venite all’acqua,
chi non ha denaro venga ugualmente;
comprate e mangiate senza denaro
e, senza spesa, vino e latte. 

Perché spendete denaro per ciò che non è pane
il vostro patrimonio per ciò che non sazia?
Su, ascoltatemi e mangerete cose buone
e gusterete cibi succulenti.

Porgete l’orecchio e venite a me,
ascoltate e voi vivrete. (Is 55).

Contemplare-agire
Imparare a entrare nella logica del dono di Dio per vivere di Lui e con Lui in eterno.




venerdì 24 luglio 2020

IL FATTORE INFEDELE

Lectio divina su Lc 16,1-13

Invocare
O Padre, che ci chiami ad amarti e servirti come unico Signore, abbi pietà della nostra condizione umana; salvaci dalla cupidigia delle ricchezze, e fa’ che, alzando al cielo mani libere e pure, ti rendiamo gloria con tutta la nostra vita. Per Cristo nostro Signore. Amen.

Leggere
1 Diceva anche ai discepoli: «Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. 2 Lo chiamò e gli disse: "Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più ammini­strare". 3 L'amministratore disse tra sé: "Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l'amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. 4 So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall'amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua". 5 Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: "Tu quanto devi al mio padrone?". 6 Quello rispose: "Cento barili d'olio". Gli disse: "Pren­di la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta". 7 Poi disse a un altro: "Tu quanto de­vi?". Rispose: "Cento misure di grano". Gli disse: "Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta". 8 Il padrone lodò quell'amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce. 9 Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a man­care, essi vi accolgano nelle dimore eterne.
10 Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. 11 Se dunque non siete stati fe­deli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? 12 E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?
13 Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l'uno e amerà l'altro, op­pure si affezionerà all'uno e disprezzerà l'altro. Non potete servire Dio e la ricchezza».

Un momento di silenzio meditativo perché la Parola possa entrare in noi ed illuminare la nostra vita.

Capire
In tutto il cap. 16 del vangelo di Luca — a eccezione di un cenno sulla legge (16,16-17) e sul divorzio (16,18) — Luca sviluppa il tema dell’uso cristiano della ricchezza. Si tratta evidentemente di un argomento di grande importanza per la sua comunità. Prima Gesù si rivolge ai discepoli con la parabola dell’amministratore disonesto (vv. 1-8) e alcune affermazioni riguardo la ricchezza (vv. 9-13). Poi vi è un’altra serie di parole di Gesù dedicate questa volta ai farisei troppo amanti del denaro (vv. 16-18) e la parabola del ricco epulone (vv. 19-31).
Questa pericope evangelica appartiene alla grande sezione del racconto di Luca che comprende tutto il lungo viaggio di Gesù verso Gerusalemme; si apre con Lc 9, 51 per terminare in Lc 19, 27.
Questa sezione, a sua volta, è suddivisa in tre parti, quasi tre tappe del viaggio di Gesù, ognuna delle quali viene introdotta da un'annotazione, a mò di ripetizione: "Gesù si diresse decisamente verso Gerusalemme" (9, 51); "Passava per città e villaggi insegnando, mentre camminava verso Gerusalemme" (13, 22); "Durante il viaggio verso Gerusalemme, Gesù attraversò la Samaria e la Galilea" (17, 11); per giungere alla conclusione di 19, 28: "Dette queste cose, Gesù proseguì avanti agli altri salendo verso Gerusalemme", quando Gesù entra nella Città.
Noi ci troviamo nella seconda parte, che va da 13, 22 a 17,10 e che si compone di diversi insegnamenti, che Gesù offre ai suoi interlocutori: la folla, i farisei, gli scribi, i discepoli. In questa unità, Gesù sta dialogando con i suoi discepoli e offre loro una parabola, per indicare quale sia l'uso corretto dei beni del mondo e come debba essere l'amministrazione concreta della propria vita, inserita in un rapporto filiale con Dio. Seguono tre "detti" o applicazioni secondarie della stessa parabola in situazioni diverse, che aiutano il discepolo a fare spazio alla vita nuova nello Spirito, che il Padre gli offre.

Meditare
v. 1: Diceva anche ai discepoli… 
Gesù nel capitolo precedente stava mangiando con i peccatori e si era messo a parlare con gli scribi e i farisei che lo criticavano per i suoi commensali. Ora il discorso di Gesù si rivolge a un uditorio più vasto: «diceva anche ai discepoli». I farisei rimangono da sfondo e torneranno in primo piano con il v. 14.
Un uomo ricco aveva un amministratore, 
La parabola inizia con due personaggi: un uomo ricco e il suo amministratore, due protagonisti per un racconto particolare. Il primo personaggio è Dio che non tiene per sé ma da’ tutto per amore; il secondo siamo noi. Ci ricorda san Paolo: “Ognuno ci consideri come ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio. Ora, quanto si richiede negli amministratori è che ognuno risulti fedele” (1Cor 4,1-2). Noi siamo sempre dei pellegrini che amministriamo dei beni che non sono nostri.
e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi.
Qui l’accusa di infedeltà. Era una situazione normale nella civiltà palestinese. Il sistema del latifondo era esteso in Galilea e spesso era in mano a degli stranieri. L’amministratore sembra un uomo libero, che svolge la funzione di tesoriere presso un privato: ha in mano gli affari del proprietario. L’occasione che dà l’avvio all’azione è l’accusa fatta all’amministratore di sperperare i beni del padrone. 
v. 2: Lo chiamò e gli disse: "Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più ammini­strare". 
È il momento del licenziamento, del rendiconto in seguito ad una precisa accusa. Non si dice niente sulla fondatezza e le motivazioni dell’accusa, non si dice se è stato disonesto o negligente. La richiesta dimostra nel proprietario una sfiducia tale, da far capire chiaramente quanto egli sia irritato e deciso a sbarazzarsi del suo amministratore. Di colpo l’amministratore si trova nei guai. È destituito e deve rendere conto della sua gestione. Questa espressione ha sapore di giudizio (Mt 12,36).
vv. 3-4: L'amministratore disse tra sé: "Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l'amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. 
Inizia un soliloquio che contiene uno stretto parallelismo con il v. 9. Qui il fattore lascia vedere in quale imbarazzo si trovi. Parlando con se stesso, l’amministratore comincia a pensare al proprio futuro: le ipotesi di impietosire il padrone per fargli cambiare idea o di cercare lo stesso lavoro presso un altro padrone sono escluse a priori, nemmeno vi pensa.
Egli piuttosto dichiara esplicitamente di non sentirsela di zappare, lavoro pesante in ogni epoca. Si vergogna di mendicare, ricordandosi forse del consiglio del saggio: «E’ meglio morire che mendicare» (Sir 40,28). Ci sarebbero senza dubbio altri mestieri a cui egli poteva dedicarsi. Certo il binomio zappare-mendicare è un espressione popolare.
So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall'amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua. 
L’amministratore comincia a riflettere, come già avevano fatto il contadino per la torre e il re di fronte alla minaccia di una guerra. La domanda di fondo, che in ultima analisi è anche la nostra, è la seguente: che cosa fare per avere un avvenire sicuro? Egli pensa a qualcuno che lo accoglierà a casa sua: i debitori del suo signore! Egli è ancora l’amministratore e può disporre di quanto gli era stato affidato.
vv. 5-7:  Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse… 
L’amministratore passa all’azione: fa venire i vari debitori uno a uno. Di nuovo Luca propone due esempi in rappresentanza dell’intera azione. Anche le domande poste in forma diretta, la menzione ad alta voce del debito fanno parte dell’arte narrativa e servono a introdurre l’ascoltatore nella questione.
I debitori potrebbero essere mezzadri in ritardo con la consegna del raccolto o piuttosto mercanti ai quali è stata anticipata la merce; comunque grossi trafficanti, come si conviene nei racconti orientali.
…Cento barili d'olio… 
Il primo deve 100 barili, cioè circa 365 litri (la produzione di 140-160 ulivi): riceve uno sconto del 50%.
…Cento misure di grano… 
Il secondo deve 100 misure di grano, cioè circa 550 quintali (la produzione di 42 ettari di terreno) e riceve uno sconto del 20%; la differenza dello sconto è solo per variare un po’ il racconto.
…scrivi cinquanta… scrivi ottanta… 
Era il debitore stesso a scrivere la somma dovuta; quindi l’amministratore per prudenza, fa scrivere la nuova cifra dalla mano stessa del debitore su un altro foglio.
v. 8: Il padrone lodò quell'amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza… 
La parabola originariamente si concludeva con un elogio a sorpresa da parte di Gesù; ma nel testo attuale la tradizione glielo attribuisce indirettamente, mettendolo in bocca al padrone. Certo l’amministratore ha agito in modo disonesto, come dice chiaramente l’espressione “amministratore d’ingiustizia”. Ma ad essere lodata non è la sua ingiustizia, bensì la sua accortezza: egli ha saputo garantirsi un futuro nel poco tempo rimasto a sua disposizione. Come in Lc 12,42, l’accortezza qualifica un comportamento cristiano richiesto al credente in attesa della venuta finale del Signore.
Accorto o scaltro è quel discepolo che tiene presente che il suo Signore lo chiamerà alla resa dei conti (12,42-46); così pure è accorto quel discepolo che non vivacchia alla giornata, ma comprende l’esigenza dell’ora e opera con determinazione e coraggio per poter resistere fino alla fine.
La parabola reca l’impronta dell’annuncio escatologico che potrebbe tradursi così: sii prudente e preoccupati, nell’ultima ora, di quello che sarà il tuo avvenire alla fine dei tempi.
I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce. 
Gesù fa una costatazione. Contrappone due categorie di persone: i figli di questo mondo e i figli della luce. I primi sono coloro che appartengono alla categoria del fattore astuto; sono quindi gente impegnata in affari terreni con raggiri e inganni. I secondi sono quelli che operano con rettitudine, con onestà di vita. Ma essi ricevono un biasimo, che va inteso come un imperativo: nelle cose che riguardano il regno di Dio, le esigenze del Vangelo, nel compito di gran lunga più importante e decisivo di tendere alla salvezza eterna devono prendere ad esempio il comportamento energico, accorto, tempestivo del fattore. 
Certamente tra il discepolo di Gesù e il fattore disonesto non c’è nulla in comune. Tuttavia il discepolo è chiamato ad imparare dal fattore disonesto la furbizia.
v. 9: Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a man­care, essi vi accolgano nelle dimore eterne. 
Il giudizio sulla ricchezza è non soltanto polemico, ma anche forte. Essa è chiamata disonesta. Perché ? Molteplici sono le ragioni. Lo è perché alle volte è frutto di ingiustizie; perché frequentemente diventa mezzo di oppressione, di ingiustizie. Lo è perché inganna l’uomo, invitandolo a porre in essa soltanto la propria fiducia; è ciò è confermato dall’espressione semitica originaria “mammonà di iniquità”.
Il termine mammonà (qui tradotto con ricchezza) significa ciò in cui si pone la propria fiducia. Il senso generale appare chiaro, la formulazione nondimeno rimane curiosa e ha dato luogo a varie interpretazioni dell’espressione Mammonà di ingiustizia. Questo termine ritorna tre volte di seguito acquista particolare rilievo: il Mammonà appare come una forza personificata, un anti-Dio. Il termine ebraico mamon proviene dalla radice mwn: nutrimento, provvista o da ’mn: stabile, solido, e significa: denaro, fortuna. Il termine non è biblico, ma si trova nella letteratura giudaica.
Cosa può dunque significare il termine Mammonà d’ingiustizia? Esso può essere rettamente inteso come “ricchezza che non ci appartiene”, sullo sfondo dell’insegnamento biblico: il creato e tutti i suoi beni appartengono a Dio, all’uomo sono soltanto affidati. Di conseguenza il Mammona appartenendo a Dio non è ingiusto in se stesso, ma lo diventa non appena l’uomo se ne appropria e lo accumula per sé, comportandosi come se Dio non ne fosse il padrone. La nota di ingiustizia non riguarderebbe quindi il bene terreno come tale. Essa pare legata alla tendenza dell’uomo a riportare questi beni a se stesso, ad accumularli per suo profitto, a considerarsene il padrone assoluto.
Le “dimore eterne” è un’ espressione tipica, la quale sta a designare il luogo della salvezza, cioè il Paradiso. A tale riguardo si pensi al detto di Gesù : “Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore” (Gv 14,2).
v. 10: Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. 
L’argomento cambia: non è più questione di dare la ricchezza ai poveri, ma di amministrarla bene, in riferimento al comportamento dell’amministratore della parabola ora giudicato negativamente. Il versetto prende dunque in considerazione l’agire rimproverabile dell’amministratore e vede nella disonestà il motivo del suo licenziamento. Però il contesto richiede di allargare la visuale: si richiede che sia fedele (12,42; 1Cor 4,2). È la scelta fondamentale di Dio senza compromessi che detta il comportamento da seguire nell’uso dei beni terreni. Allora, proprio la fedeltà o meno nell’uso della ricchezza che Dio ha affidato all’uomo risulta un test efficace della fedeltà a Dio.
vv. 11-12: Se dunque non siete stati fe­deli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?
Questi versetti sono l’applicazione della massima precedente, fatta in forma di doppia domanda e secondo un ragionamento “da minore a maggiore” caratteristico dell’insegnamento rabbinico. Si tratta di un incoraggiamento a non dimenticare il vero bene che aspetta il discepolo nel cielo; per ottenerlo però il discepolo deve dimostrarsi fedele nell’uso dei beni materiali e questa fedeltà nei confronti del Mammonà ingiusto (cioè che non appartiene all’uomo) non sta in una buona gestione economica, ma nel donare i propri beni ai poveri.
Il Mammonà è la ricchezza altrui o ciò che ci è estraneo; il regno di Dio, la nuova vita, è quanto possiamo dire veramente nostro. Noi ad una persona che non è capace di amministrare e che non ha con noi un rapporto profondo, non affideremo mai quanto abbiamo di caro. Eppure Dio ci offre il suo regno e ci rende partecipi della sua vita, ci dona qualcosa di suo, qualcosa a cui è personalmente interessato.
Attraverso la fedeltà nell’amministrazione dei beni terreni, il discepolo viene messo alla prova, per vedere se egli sia adatto a ricevere i beni del mondo futuro.
v. 13: Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l'uno e amerà l'altro, oppure si affezionerà all'uno e disprezzerà l'altro.
Chiude il nostro brano una sentenza parenetica sapienziale che aiuta ad esaminarci nel profondo. Essa inizia come un proverbio: l’esperienza mostra che quando uno schiavo è a servizio di due padroni, egli immancabilmente finirà per servire l’uno meglio dell’altro.
Qui siamo tutti servitori, cioè, stiamo in casa non da padroni: nessuno di noi è padrone del mondo, né dell’aria, né della terra, né del cielo, né della nostra vita, tanto meno degli altri. Chi vuole fare da padrone, pazienza. Distrugge sé e gli altri.  
Gesù non ritiene nessun compromesso tra il servizio di Dio e il servizio di Mamonà. È necessario scegliere: se apparteniamo al Signore che dà la vita, che è amore, che dona tutto, o a quel signore che toglie la vita, che dà la morte, prende tutto, possiede tutto, distrugge tutto. È questa l’alternativa (cfr. 1Re 18,21).
Non potete servire Dio e la ricchezza. 
La finale volge l’applicazione agli ascoltatori, chiamandoli a non ondivagare nella fede ma a fare la scelta migliore, anche se desta una inquietudine interiore perché toglie quella “beatitudine delle ricchezze”. Essi sanno che devono amare Dio, un tale servizio è incompatibile con quello di Mamonà. 
L’incompatibilità non è tanto tra Dio e Mamonà, ma nel cuore dell’uomo. È il cuore, cioè le sue scelte fondamentali che non deve essere diviso. Il pericolo della ricchezza è che l’uomo finisca con l’innamorarsi di essa. Allora essa diventa un padrone esigente. 
Gesù oggi ci esorta a fare una scelta chiara tra Lui e lo spirito del mondo, tra la logica della corruzione, della sopraffazione e dell’avidità e quella della rettitudine, della mitezza e della condivisione. Nella gratuità e nella donazione di noi stessi ai fratelli, serviamo il padrone giusto: Dio (Papa Francesco).

Ci fermiamo in silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato

La Parola illumina la vita e la interpella
Quali reazioni suscita in me la parabola dell’amministratore infedele?
Qual è il mio atteggiamento verso le ricchezze terrene? Sono diventate il mio padrone?
Qual è l'assoluto della mia esistenza? In ogni cosa metto Dio al primo posto?
Tutti sappiamo che, presto o tardi ci sarà tolta l’amministrazione dei beni: cosa fare per garantirmi il futuro?

Pregare
Signore,
aiutaci ad essere veri servitori del Regno dei cieli,
donaci la saggezza e la sapienza del cuore
nell’amministrare le ricchezze terrene,
perchè siano di sollievo ai poveri,
e perchè il nostro tesoro è nel cielo e non sulla terra.
Fà che il nostro sguardo sia sempre rivolto ai beni celesti
perchè sono i beni che durano in eterno
e danno valore e consistenza alle realtà della terra. Amen.

Contemplare-agire
Lasciamo che la Parola illumini la nostra vita. Ci aiutino le parole dell’Apostolo Paolo a farci riflettere e agire: A quelli che sono ricchi in questo mondo ordina di non essere orgogliosi, di non por­re la speranza nell'instabilità delle ricchezze, ma in Dio, che tutto ci da con abbondanza perché possiamo goderne. Facciano del bene, si arricchiscano di opere buone, siano pronti a dare e a condividere: così si metteranno da parte un buon capitale per il futuro, per acquistarsi la vita vera (1Tim 6,17-19).

IL COSTO DEL DISCEPOLATO

Lectio divina su Lc 14,25-33

Invocare
O Dio, tu sai come a stento ci raffiguriamo le cose terrestri, e con quale maggiore fatica possiamo rintracciare quelle del cielo; donaci la sapienza del tuo Spirito, perché da veri discepoli portiamo la nostra croce ogni giorno dietro il Cristo tuo Figlio. Amen.

Leggere
28 Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? 29 Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, 30 dicendo: «Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro». 31 Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? 32 Se no, mentre l'altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace. 33 Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo.

Un momento di silenzio meditativo perché la Parola possa entrare in noi ed illuminare la nostra vita.

Dentro il Testo
La Parola di Dio ci offre l'opportunità di riflettere sulla sequela di Cristo. Il vangelo, letto coi vv. 25-27,  mette in evidenza le caratteristiche del discepolo di Gesù: amare il Maestro con un legame più forte di quello che ha con la famiglia, accettare – portare - la croce seguendo le orme di chi lo chiama, e valutare bene la propria reale disponibilità. Il Signore propone ai suoi una scelta radicale, che supera qualsiasi altro legame, fino a metterli in secondo piano (questo il senso dell'«odiare» usato nei confronti della famiglia). Emerge il rischio della delusione – una dichiarazione di guerra improvvida, o una costruzione avventata – che nasce dall'aver preso la scelta troppo alla leggera, pensando che si è discepoli di Gesù solo perché ci si entusiasmo un poco di fronte alle sue idee.
Le due parabole mostrano la necessità di riflettere prima di un'impresa importante. Così, Gesù esorta ad aprire bene gli occhi e a misurare attentamente le proprie forze prima di mettersi alla sua sequela. Non nasconde, ovviamente, la sua ferma convinzione che il calcolo più saggio, anzi l'unico calcolo da fare, è decidere di seguirlo con la radicalità che Lui si attende. Con linguaggio tagliente Gesù ci traccia l'identikit del cristiano, per il quale il legame con Lui è il valore più grande che ci sia. Un legame di appartenenza totale a Cristo, operata dal battesimo, che a livello esistenziale non può essere vissuta a metà o in parte, ma interamente, con radicalità.

Meditare
v. 28: Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? 
La torre richiama l'esperienza biblica di Babele. Nella costruzione della torre di Babele, troviamo il segno della presunzione umana che pretende di arrivare a Dio solo con i propri mezzi. Gesù usa proprio il simbolo della torre come elevazione dell'uomo verso Dio. Costruire una torre richiede una spesa non indifferente per chi ha poche risorse. Il buon desiderio di costruire se stessi non è sufficiente per farlo, è necessario sedersi, calcolare le spese, cercare i mezzi per portare il lavoro a compimento. La vita dell'uomo resta incompiuta e insoddisfatta perché tanto il progetto della costruzione è meraviglioso quanto i debiti del cantiere enormi! Un progetto su misura: non saper calcolare ciò che è in nostra capacità di compiere non è la saggezza di chi dopo aver arato attende la pioggia, ma l'incoscienza di chi attende la fioritura e il raccolto da semi gettati tra sassi e rovi, senza fare la fatica di dissodare il terreno.
Sedersi per calcolare la spesa. È quello stile che si chiama discernimento e capacità di vedere con gli occhi della fede in Dio. Tante persone credono che per poter seguire Cristo bisogna dire no a ciò che si ha di più caro, come se l'amore di Cristo sia totalitario. L'amore di Dio, invece, è totalizzante, nel senso che una volta che il proprio cuore lo si è aperto a quello di Dio la reciproca trasfusione di donazione ha preso avvio.
vv. 29-30: Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: «Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro».
La derisione degli altri che arriva come grandine sui sentimenti di speranza di chi voleva arrivare in alto con le sue sole forze è il compenso alla propria arroganza vestita di buona volontà. Quante umiliazioni ognuno porta con sé, ma quanto poco frutto da queste esperienze di dolore! Avere le fondamenta e non ultimare la costruzione, serve a ben poco. I desideri che si infrangono qualche volta sono buoni tutori al nostro ingenuo affermarci... ma noi non li comprenderemo finché tentiamo di coprire l'insuccesso e la delusione del risveglio dal mondo fiabesco dei sogni dell'infanzia. Gesù ci chiede di diventare bambini sì, ma un bambino non pretenderà mai di costruire una torre "vera"! Si accontenterà di una piccola torre sulla riva del mare, perché conosce bene le sue capacità.
Ogni cristiano, se vuole essere realmente discepolo di Gesù, deve riflettere prima di iniziare a seguirlo perché la realtà cristiana è una cosa seria, che mette tutto in gioco, anche la propria vita e i propri beni, per vivere pienamente tale scelta. Diversamente si fallisce prima di iniziare.
vv. 31-32: Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? 
Ancora una parabola attraverso il quale Gesù continua il suo insegnamento parlando delle scelte di fronte alle quali si trova il discepolo che vuole seguirlo. Questa volta attraverso il "re guerriero" che pondera tutto prima di agire.
Qui c'è un combattimento che dobbiamo sostenere contro il demonio, contro il mondo, e contro noi stessi nelle tentazioni e nei desideri della carne. Ogni cristiano deve essere pronto a rinunciare effettivamente a tutto ciò che gli è di ostacolo per ottenere l'eterna salute.
Gesù suggerisce di calcolare bene la potenza del nemico e premunirsi per non soccombere.
Se no, mentre l'altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace
Nessuna battaglia si potrà mai vincere senza ambascerie di pace. Combattere per avere supremazia regale su ogni altro è di per sé una battaglia perduta. Perché l'uomo non è chiamato ad essere re di dominio, ma signore di pace. E avvicinarsi all'altro mentre è ancora lontano è il segno più bello della vittoria dove nessuno perde e nessuno vince, ma tutti si diventa servi dell'unica vera sovrana del mondo: la pace, la pienezza dei doni di Dio.
v. 33: Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo. 
Qui abbiamo la condizione per seguire Gesù. Lui subito ci dice che abbiamo troppe cose. Siamo addossati di troppi beni. Abbiamo bisogno di liberarcene. Ecco che nasce l'invito a rinunciare alla logica del possesso, dell'avere, per entrare nella logica del dono, della gratuità. Gesù domanda la libertà di fronte ai beni, la disponibilità a condividerli con chi soffre, la gioia di servirlo in chiunque è bisognoso e umiliato. La rinuncia del cristiano non è mortificazione fine a se stessa. L'ascesi cristiana è la possibilità di scoprire il nostro essere veri uomini come discepoli di Cristo. È il ricercatore che, trovata la perla vende tutto per poterla tenere per sé.
Nel discepolato di Cristo, che sembra essere esigente, troviamo il senso profondo del nostro esistere perché scopriamo in Cristo il nostro unico e vero bene. Aggrappati a Lui avremo il coraggio di mettere tutti i nostri doni al servizio degli altri.

Alcune domande per la riflessione personale e il confronto
So bene cosa vuol dire essere discepolo Cristo Gesù?  
Sono convinto che sia necessario arrivare a separarmi da tutto ciò che lega il cuore: affetti ricevuti e donati, la vita stessa, per seguire Gesù?
Sono convinto che la chiave della sequela sia la povertà del non possedere, ma la beatitudine dell'appartenenza?

Pregare
Del Signore è la terra e quanto contiene:
il mondo, con i suoi abitanti.

È lui che l'ha fondato sui mari
e sui fiumi l'ha stabilito.

Chi potrà salire il monte del Signore?
Chi potrà stare nel suo luogo santo?

Chi ha mani innocenti e cuore puro,
chi non si rivolge agli idoli,
chi non giura con inganno.

Egli otterrà benedizione dal Signore,
giustizia da Dio sua salvezza.

Ecco la generazione che lo cerca,
che cerca il tuo volto, Dio di Giacobbe.

Alzate, o porte, la vostra fronte,
alzatevi, soglie antiche,
ed entri il re della gloria.

Chi è questo re della gloria?
Il Signore forte e valoroso,
il Signore valoroso in battaglia.

Alzate, o porte, la vostra fronte,
alzatevi, soglie antiche,
ed entri il re della gloria.

Chi è mai questo re della gloria?
Il Signore degli eserciti è il re della gloria. (Sal 24).

Contemplare-agire
Lasciamo che lo Spirito Santo entri nella nostra vita. Chiediamo allo Spirito Santo la lucidità interiore per cogliere i legacci e gli impedimenti dell'ego per poter seguire meglio la via del Vangelo.  

mercoledì 22 luglio 2020

IL CREDITORE E I DUE DEBITORI

Lectio divina su Lc 7,41-43

Invocare
Spirito di verità Tu ci rendi figli e figlie di Dio, così che ci possiamo accostare con fiducia al Padre. Padre, ci rivolgiamo a te con un cuor solo e un'anima sola e ti chiediamo: manda il tuo Santo Spirito!
Manda il tuo Spirito sulla Chiesa, su noi che meditiamo questa Parola di vita perché possiamo scoprire con più consapevolezza che il tuo mistero, o Dio, è un canto all'amore condiviso. Tu sei il nostro Dio e non un Dio solitario. Sei Padre, fonte feconda. Sei Figlio, Parola fatta carne, amore vicino e fraterno. Sei Spirito, amore fatto abbraccio.

Leggere
Gesù disse: 41 «Un creditore aveva due debitori: uno gli doveva cinquecento denari, l’altro cinquanta. 42 Non avendo essi di che restituire, condonò il debito a tutti e due. Chi di loro dunque lo amerà di più?». 43 Simone rispose: «Suppongo sia colui al quale ha condonato di più». Gli disse Gesù: «Hai giudicato bene».

Un momento di silenzio meditativo perché la Parola possa entrare in noi ed illuminare la nostra vita.

Dentro il Testo
Troviamo tra le righe di questa brevissima parabola, un argomento caro all'evangelista Luca: l'accoglienza e il perdono dei peccatori. Per farlo, l'Evangelista racconta la vicenda di una donna che entra in casa di Simone, un fariseo che aveva invitato Gesù (leggi Lc 7,36-50). Vengono contrapposti i gesti della donna e di Simone: lei – definita "peccatrice" invoca la misericordia di Dio, mentre il fariseo si scandalizza per tanta tenerezza e soprattutto per l'atteggiamento di Gesù, che ai suoi occhi appare ingenuo e troppo permissivo nei confronti di una "peccatrice". 
Agli occhi del fariseo e dei suoi convitati, questo atteggiamento non solo è sconcertante, ma addirittura equivoco: tutti sono preoccupati del contatto di Gesù con una donna peccatrice, che getta il discredito sulla loro categoria di "puri": "Se costui fosse un profeta saprebbe chi è questa donna che lo tocca: è una peccatrice" (Lc 7,39). Ma ciò che è ancor più grave ai loro occhi, è che Gesù tace e lascia fare, compromettendo la sua reputazione di uomo di Dio, di profeta riconosciuto dal popolo.
Il pensiero di Simone è di riprovazione, che certamente non passa inosservato a Gesù ed Egli narra la breve parabola. 
La parabola riporta dunque due parallelismi: il creditore raffigura Dio e il debito è il peccato; i due debitori raffigurano diversi livelli di peccatore e di amore: colui a cui è perdonato di meno ama di meno, ed è il fariseo Simone, e colui a cui è perdonato di più ama di più, ed è la peccatrice sconosciuta. Con tale parabola, Gesù vuole rimarcare il concetto della Misericordia di Dio, che perdona sia i piccoli che i grandi debiti: "chi di loro dunque lo amerà di più? Simone rispose: "Ritengo sia colui al quale hai condonato di più".

Meditare
vv. 41-42: «Un creditore aveva due debitori: uno gli doveva cinquecento denari, l’altro cinquanta. Non avendo essi di che restituire, condonò il debito a tutti e due. Chi di loro dunque lo amerà di più?».
Questa breve parabola non risponde al dubbio avanzato dal fariseo, che riguardava la purità, ma dà una certa interpretazione al comportamento della donna (che non corrisponde probabilmente al senso originale di tale comportamento, che era di pentimento), giudicandolo come effetto del perdono ricevuto. Per contrasto, il fariseo apparirà sotto una cattiva luce.
Molto spesso le parabole sono costruite su un capovolgimento di situazioni: un uomo aveva due debitori: uno gli doveva cinquecento denari, l’altro cinquanta. Non c’è dubbio: dei due è in situazione peggiore quello che deve cinquecento denari; ma il padrone condona a tutti e due. Chi lo amerà di più? E succede che il maggior debitore viene a trovarsi in una condizione privilegiata: essendo stato perdonato di più; amerà di più. «Chi dunque lo amerà di più?». 
Gesù parte mettendosi dal punto di vista del fariseo e poi costringe il fariseo a ragionare in modo diverso, infatti alla fine gli dice: “Chi dunque di loro lo amerà di più?”. 
Ora, i due debitori rappresentano tutti noi, nel senso che siamo debitori di tutto ciò che abbiamo ricevuto, dalla vita all’aria, dalla terra a ciò che siamo, a ciò che abbiamo, alle relazioni; siamo debitori di tutto. Il problema vero è che tutto ciò non è un debito da pagare, ma un dono. Simone, fariseo, la pensa diversamente: bisogna pagare per essere alla pari, anche con Dio.
Qui abbiamo il superamento: tutto ci è donato e perdonato, non siamo debitori; siamo tutti donati e perdonati. Il problema non è una questione di gara a chi è più bravo, oppure a chi segue meglio le rubriche o chi conosce meglio il diritto, ma chi ha amato di più. 
v. 43: Simone rispose: «Suppongo sia colui al quale ha condonato di più». Gli disse Gesù: «Hai giudicato bene».
Simone ha l’impressione che ci sia un piccolo tranello sotto, perché quando la domanda è troppo facile, sotto c’è l’inganno; così risponde: «Suppongo quello a cui ha condonato di più. Gli disse Gesù: Hai giudicato bene».
In questi versetti, più che il verbo condonare, ci sta il verbo graziare, perché la grazia è la stessa comunicazione di Dio.
Ora, l'affermazione di Gesù vuole dire: "attento, dentro a questa parabola ci sei anche tu; dentro questa grazia ci sei anche tu. Cerca di capire che questa parabola riguarda proprio te e riguarda tutti quelli che pensano di avere nei confronti di Dio un debito, anche piccolo".
Dio comunica il suo amore e nel perdono dei peccati riconosceremo chi è Dio. «Quando avrete innalzato il figlio dell'uomo allora saprete che Io sono» (Gv 8,28), cioè Dio. Fuori della croce non conosceremo mai Dio. Nella croce capiremo il suo amore per noi, capiremo la nostra identità, la grazia che Dio ha per noi e il suo amore si manifesta come perdono dei nostri peccati. 
Guardando al creditore, rappresentato da Gesù, vediamo che non fa alcuna differenza rispetto all'entità del debito, né rispetto al fatto che entrambi non potessero pagarlo: rimette ai suoi debitori l'intera quantità di denaro per la quale erano in difetto, nella consapevolezza che in ogni caso non sarebbero riusciti a sanare il loro debito. 
Anche per noi che, in misura minore o maggiore, siamo tutti peccatori di fronte a Dio, il nostro peccato sarà comunque troppo grande per poterci salvare da noi stessi. Dice il salmista: "Certo, nessuno mai potrà redimersi, nessuno potrà mai dare a Dio il prezzo del suo riscatto" (Sal 49,6-7); il vero amore cristiano verso Dio è sempre un amore riconoscente. 

La Parola illumina la vita
Qual è il mio pensiero nei confronti dei miei peccati? Mi sento un peccatore o un giusto?
Qual è il mio atteggiamento nei confronti di coloro che sono peccatori, magari nei miei confronti?
Come intendo il mio rapporto con Dio? 

Pregare
Beato l’uomo a cui è tolta la colpa
e coperto il peccato.
Beato l’uomo a cui Dio non imputa il delitto
e nel cui spirito non è inganno.

Ti ho fatto conoscere il mio peccato,
non ho coperto la mia colpa.
Ho detto: «Confesserò al Signore le mie iniquità»
e tu hai tolto la mia colpa e il mio peccato.

Tu sei il mio rifugio, mi liberi dall’angoscia,
mi circondi di canti di liberazione.
Rallegratevi nel Signore ed esultate, o giusti!
Voi tutti, retti di cuore, gridate di gioia! (Sal 32)

Contemplare-agire
Anche noi, ai margini della società, possiamo trovare qualcuno che sa che abbiamo commesso colpe, ma che si accorge che sappiamo amare, che possiamo andare oltre la nostra condizione. Lasciamoci plasmare dall’amore di Dio per continuare a perdonare e amare.
 

I LAVORATORI NELLA VIGNA

Lectio divina su Mt 20,1-16


Invocare
O Padre, giusto e grande nel dare all’ultimo operaio come al primo, le tue vie distano dalle nostre vie quanto il cielo dalla terra; apri il nostro cuore all’intelligenza delle parole del tuo Figlio, perché comprendiamo l’impagabile onore di lavorare nella tua vigna fin dal mattino. Per Cristo nostro Signore. Amen.

Leggere
1 Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all'alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. 2 Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. 3 Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, 4 e disse loro: «Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò». 5 Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno, e verso le tre, e fece altrettanto. 6 Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: «Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?». 7 Gli risposero: «Perché nessuno ci ha presi a giornata». Ed egli disse loro: «Andate anche voi nella vigna».
8 Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: «Chiama i lavoratori e da' loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi». 9 Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. 10 Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch'essi ricevettero ciascuno un denaro. 11 Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone 12 dicendo: «Questi ultimi hanno lavorato un'ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo». 13 Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: «Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? 14 Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest'ultimo quanto a te: 15 non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?». 16 Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi».

Silenzio meditativo: Il Signore è vicino a chi lo invoca.

Capire
La parabola odierna è una pagina dalle molteplici interpretazioni. È inserita nel contesto dei capp. 19-20 che registrano lo spostarsi di Gesù e dei discepoli dalla Galilea per poi dirigersi decisamente verso Gerusalemme. 
La parabola segnala l’aggravarsi della crisi farisaica dinanzi alla prassi di Gesù. La narrazione riflette una situazione analoga a Lc 15 e sostanzialmente omogenea è la risposta di Gesù. Il quale, ai farisei suoi critici, riconosce due cose: il loro essere sin dall’alba nella vigna e il loro lavorare con frutto. Costoro, come anche il figlio maggiore di Lc 15 da sempre sono con il Padre e da sempre possono essere detti “figli del comandamento”. La loro vita è sinceramente conforme alla Torah. Gesù non sminuisce questo loro comportamento, ma solo notifica ai farisei cosa è ad essi richiesto per divenire “perfetti” come il Padre, che fa scendere sole, pioggia e misericordia sui giusti e sugli ingiusti, sui buoni e sui cattivi: il gioire con lui per il peccatore ritrovato, il non avere l’occhio cattivo e invidioso dinanzi alla bontà di Dio, il divenire come lui, con passione incontenibile, la mano tesa per i pubblicani, per i peccatori, per uomini e donne simili a pecore smarrite e a folle senza pastore. A tutti è chiesto di entrare nelle viscere di misericordia sconfinata del Padre apparsa in Gesù.

Meditare
vv. 1-2: Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all'alba 
L'inizio del versetto, suggerisce che il regno dei cieli è simile a tutto ciò che segue nella parabola, non solo il padrone della vigna.
Il padrone di casa è colui che esce, non il fattore (v. 8). È Lui che prende l’iniziativa. Ogni convocazione, ogni chiamata che ci viene per giungere alla fede nasce ed è preceduta da un Padrone che esce. 
L’uscita del padrone rappresenta il mistero dell’incarnazione. La nostra fede incomincia nel momento in cui il Padre decide di uscire. Quest’azione vuol dire decidere di comunicarsi, di rendersi partecipe a noi. Ciò che segna tutta la parabola è l’uscire del Padre. Ora, entrare a far parte della chiesa vuol dire, paradossalmente, uscire. Il nostro modo di essere nella chiesa è quello di uscire, di essere missionari.
per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. 
La chiave per l'interpretazione della parabola è l'immagine della vigna come simbolo di Israele, lo stesso simbolismo che sta alla base della parabola della
vigna di Mt 21,33-46. La fonte più esplicita di questo simbolismo è Is 5,1-7: «Il mio diletto possedeva una vigna... la vigna del Signore degli eserciti è la casa d'Israele». 
 Il fatto che il padrone della vigna ha bisogno di lavoratori a più riprese indica che il tempo della raccolta è vicino. Alla sera, alla fine della giornata, c'è il regolamento dei conti e la distribuzione delle ricompense. Colui che presiede l'operazione è il signore/padrone (kyrios) della vigna.
Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. 
Non è sufficiente la chiamata e neppure lavorare per un’intera giornata nella vigna per un denaro (la paga giornaliera dell'operaio cfr. Tb 5,15) per vivere realmente la realtà del Regno. Il rischio è quello di considerare il lavoro nella vigna solo fatica e impegno con cui accumulare meriti e rivendicare privilegi. L’importante è cercare il Signore e ritrovare la relazione con lui, quella relazione che è l’Alleanza rinnovata dal Padre nel suo Figlio (cfr. Is 55,6).   
vv. 3-4: Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: «Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò». 
La giornata lavorativa in Oriente andava dal sorgere del sole fino alla comparsa delle prime stelle, per un totale di 12 ore. L'ora terza ci ricorda anche il dono dello Spirito sulla Chiesa nascente. L’uscita del padrone mostra che la bontà e la giustizia di Dio si sono manifestate in Cristo, nell’evento dell’incarnazione e della croce. 
Incarnazione e croce rinviano al dono di Dio e sono l’evento di rivelazione dell’amore e della giustizia di Dio: “Si è manifestata la giustizia di Dio;.. tutti sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù” (Rm 3). La manifestazione della bontà di Dio è in Cristo e in Cristo crocifisso. Ora, quale giustizia, nel senso di principio di corrispondenza e di equivalenza, vi è nell’evento del dono del Figlio all’umanità? Quell’evento parla di un amore non contraccambiabile, di un dono che non può essere ripagato, di una gratuità e di una unilateralità assolute da parte di Dio. La giustizia e la bontà di Dio vanno comprese a partire da quell’evento che non è ascrivibile all’interno dei nostri parametri di giustizia, ma neppure all’interno dei nostri parametri di amore perché Dio, amando il mondo mentre gli è ostile, amando il peccatore e il nemico, non ama chi è amabile di per sé, chi presenta titoli per attirare amore, ma rende amabile chi amabile non è amandolo. Questa è la carità divina.
vv. 5-7: Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno, e verso le tre, e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì 
L'invio degli operai nella vigna nelle diverse ore della giornata, ha solo lo scopo di mettere in risalto l'ineguaglianza delle loro prestazioni, a cui il padrone darà uguale ricompensa. Il padrone esce ancora: è l'ora sesta. È l'ora in cui Cristo paga il riscatto per la nostra salvezza.  
L’uscita del padrone indica anche una preoccupazione. Avremo in questo tempo già finita la vendemmia ed è ancora viva la preoccupazione che si ha per la propria vigna al punto che per essa si esce. A noi sta a cuore la condizione della nostra vigna. La preoccupazione per la vigna, l’invito a lavorarci fanno parte di un unico disegno: se ti preme la vigna, ti deve stare a cuore anche chi è chiamato a lavorarci. Quindi per questa vigna si esce.
«Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?». Gli risposero: «Perché nessuno ci ha presi a giornata». Ed egli disse loro: «Andate anche voi nella vigna».
La preoccupazione per la vigna, che spinge a uscire, è la considerazione che si ha per il lavoro. C'è una bontà e generosità del padrone che ingaggia sempre più operai. Qui il discorso è importante. Qui c’è la necessità e l’importanza del lavoro, l’importanza di poter lavorare: anche un’ora di lavoro è decisiva.  Ma il tutto ruota a dare un senso che nasce dalla generosità e non dalla necessità.
v. 8: Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: «Chiama i lavoratori e da' loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi». 
In questo versetto inizia la parte più materiale del discorso: l’aspetto della paga. A parità di possibilità di lavoro, ci dobbiamo chiedere: è legittima una sperequazione degli stipendi? È improponibile il superamento del discorso salariale? Qualcuno potrebbe dire: dal vangelo non si può ricavare una dottrina sociale. Ma è proprio così? Il superamento del rapporto salariale ha dei costi. Il primo costo è il superamento dell’invidia per la quale un’attività lavorativa tu la vivi spesso come il diritto che ti è dato di prevalere sugli altri. In secondo luogo, nella risposta che il padrone dà c’è una grande libertà da quelli che sono i suoi beni: ‘io non posso fare delle mie cose ciò che voglio?’ Quante volte sono le cose a farci fare quello che vogliono loro.
vv. 9-10: Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch'essi ricevettero ciascuno un denaro. 
Alla fine della giornata viene dato il salario, e si comincia da quelli dell’ultima ora. Questi ricevono il salario di una giornata intera; non solo dunque hanno potuto lavorare un po’, ma recuperano tutto il periodo di disoccupazione, potranno dunque aver da mangiare a sazietà. I primi che hanno lavorato tutta la giornata vengono pagati per ultimi: prendono la stessa paga, come quelli che hanno lavorato solo un’ora, e se ne lamentano, come avremmo fatto noi! Pare che salti ogni rapporto di giustizia distributiva – quella virtù per cui si dà a ciascuno quello che gli spetta – se uno lavora “dieci”, il guadagno è dieci, se uno ha lavorato trenta, riceve trenta. Ma nella parabola, non si usa la giustizia distributiva.
v. 11: Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone 
Qui si innesta la risposta del padrone nei confronti di chi mormora. Il padrone fa notare che in realtà non ha rubato niente a nessuno: quelli che hanno lavorato un giorno intero, hanno lo stipendio esatto secondo le norme e secondo il contratto. Non è violata la giustizia; però, dice il padrone, voglio dare anche agli ultimi quello che ho dato a voi; voglio essere generoso con gli altri: vi dispiace se sono generoso?
v.12: «Questi ultimi hanno lavorato un'ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo». 
Il problema non è la paga, visto che il salario è giusto, ma l'invidia che rode dentro nei confronti dei vantaggi che gli altri hanno ricevuto. L'invidia è la madre della superbia. Gli operai della prima ora non si lamentano per un danno subito ma con la loro invidia vogliono difendere una differenza. È questo che li irrita: la mancanza di una distinzione. Il torto che credono di subire è nel vedere che il padrone è buono con gli altri. È l’invidia del giusto di fronte a un Dio che perdona i peccatori. “Io chiedo a te che sei cristiano, se credi di poterti vantare di un tale atteggiamento, e dico che è ben migliore di te quel mendicante che [al tuo passare] ti augura che s'accresca la tua fortuna, mentre lui non possiede niente. Tu gli ricambi volentieri l'augurio di bene, ma non gli dai nulla. Io ti esorto a dargli qualcosa come ricompensa per l'augurio che ti fa. Che un povero ti auguri bene, ti dovrebbe liberare dal timore. Ti faccio anche considerare che frequenti la scuola di vita cristiana. E aggiungo quello che già ti ho insegnato: è Cristo quel povero che ti fa l'augurio di bene. Chiede a te lui che prima ha dato a te: ne dovresti arrossire. Lui ricco ha voluto farsi povero perché tu avessi il povero a cui dare. Da' qualcosa a chi è tuo fratello, tuo prossimo, tuo compagno. Tu sei ricco, lui è povero. Questa vita è per entrambi la via su cui siete in cammino insieme” (sant'Agostino). Anche gli Ebrei in esilio dicevano: “Le nostre ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti” (Ez 37, 11). La condizione di avvilimento toglie il gusto di fare, di lavorare, di impegnarsi. A tutti gli angosciati invece la parabola dice: Non temere! Quando ascolti la voce di Cristo, cioè quando ascolti questa parabola, che è parola di Gesù, devi capire che è una parola per te, operaio dell’ultima ora, se ascolti e accetti di andare a lavorare nella vigna del Signore. Il tempo è ora, non conta quello che è stato il passato. Non è mai giustificata la rassegnazione: devi andare adesso a lavorare. E non devi affannarti per produrre molto: se puoi lavorare, lavora; puoi solo pregare, prega; puoi solo accettare il peso della sofferenza: anche questo è un modo di lavorare nella vigna del Signore. Non stare a contare quello che hai prodotto: il salario non corrisponde mai alla quantità di lavoro fatto.
vv. 13-14: Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: «Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest'ultimo quanto a te
C’è un insegnamento anche per gli operai della prima ora, che hanno lavorato tutto il giorno, sopportando il caldo e che, ora, si lamentano perché ricevono solo un denaro come gli ultimi. Nell’ottica della parabola, invece, dovrebbero essere contenti di aver potuto lavorare tutto il giorno, di non aver mai avuto un momento di insicurezza, certi di poter mangiare; dovrebbero essere contenti di aver potuto lavorare e produrre di più per il Signore. Questi operai dovrebbero capire che il rapporto con Dio non è semplicemente un rapporto salariale, – per una certa quantità di lavoro, tu mi rendi un certo salario –; il lavoro nella vigna del Signore infatti non si basa su un rapporto di salariato-padrone. Lavorando nella vigna del Signore, il salario è Dio stesso; non è qualche cosa, ma la comunione con Dio, che rimane sempre un dono infinitamente più grande di quello che abbiamo potuto fare noi, un dono che viene dalla generosità di Dio per tutti e per il quale possiamo semplicemente benedire e ringraziare senza pretendere niente.
Chi ha una mentalità liberista farà fatica a capirlo, perché segue l’etica dell’invidia.
vv.15-16: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?». Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi».
Il modo di agire di Gesù è quello di Dio; egli è buono e lo è Gesù. Purtroppo questi sono uomini, persone invidiosi della bontà di Dio (cfr. Dt 15,9) e si scandalizzano: “beato chi non trova in me motivo di scandalo” (Mt 11,6). Bisogna entrare in una concezione non farisaica della vita religiosa: “farisaico” ha per noi un significato negativo, ma, di per sé, esprime l’esigenza per cui alle mie opere, Dio risponde con un salario equivalente: se moltiplico le opere, avrò di più. Nell’ottica di Gesù invece, questo rapporto non ha senso: non conta la quantità delle opere. Occorre, sì, farle con amore, con spirito filiale, ma poi dobbiamo fidarci del Signore, senza più misurare niente.

La Parola illumina la vita
Troppo spesso la nostra fede è vissuta come la fede di chi rientra, non di chi esce. Rileggi il brano con calma e raccogli i consigli di Gesù per la tua vita e la vita della comunità.
Gesù è quel padrone che chiama. Come rispondo alla sua chiamata? Offro me stesso o continuo a vivere nel torpore della vita?
Come mi rapporto nella vita con gli altri: da mormoratore, da invidioso o pieno di bontà? 
Mi lascio identificare come cristiano sul lavoro o preferisco rimanere in una ‘zona grigia’ non ben distinta?

Pregare
Ti voglio benedire ogni giorno,
lodare il tuo nome in eterno e per sempre.
Grande è il Signore e degno di ogni lode;
senza fine è la sua grandezza.

Misericordioso e pietoso è il Signore,
lento all’ira e grande nell’amore.
Buono è il Signore verso tutti,
la sua tenerezza si espande su tutte le creature.

Giusto è il Signore in tutte le sue vie
e buono in tutte le sue opere.
Il Signore è vicino a chiunque lo invoca,
a quanti lo invocano con sincerità. (Sal 144)

Contemplare-agire
La preghiera è dono di riconciliazione, con Dio con se stessi e con gli altri: Signore, ti prego: fa che io veda. Con occhi buoni, senza gelosia; con l’accoglienza, senza mormorare.

domenica 19 luglio 2020

IL SEMINATORE E I SUOLI

Lectio divina su Mt 13,1-23


Invocare
Accresci in noi, o Padre, con la potenza del tuo Spirito la disponibilità ad accogliere il germe della tua parola, che continui a seminare nei solchi dell'umanità, perché fruttifichi in opere di giustizia e di pace e riveli al mondo la beata speranza del tuo regno. Per Cristo nostro Signore. Amen.

In ascolto della Parola (Leggere)
1Quel giorno Gesù uscì di casa e sedette in riva al mare. 2Si radunò attorno a lui tanta folla che egli salì su una barca e si mise a sedere, mentre tutta la folla stava sulla spiaggia. 3Egli parlò loro di molte cose con parabole. E disse: «Ecco, il seminatore uscì a seminare. 4Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. 5Un'altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c'era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, 6ma quando spuntò il sole, fu bruciata e, non avendo radici, seccò. 7Un'altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. 8Un'altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. 9Chi ha orecchi, ascolti».
10Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: «Perché a loro parli con parabole?». 11Egli rispose loro: «Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. 12Infatti a colui che ha, verrà dato e sarà nell'abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha. 13Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono. 14Così si compie per loro la profezia di Isaia che dice: Udrete, sì, ma non comprenderete, guarderete, sì, ma non vedrete.
15Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile, sono diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli occhi, non ascoltino con gli orecchi e non comprendano con il cuore
e non si convertano e io li guarisca! 16Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. 17In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono!
18Voi dunque ascoltate la parabola del seminatore. 19Ogni volta che uno ascolta la parola del Regno e non la comprende, viene il Maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada. 20Quello che è stato seminato sul terreno sassoso è colui che ascolta la Parola e l'accoglie subito con gioia, 21ma non ha in sé radici ed è incostante, sicché, appena giunge una tribolazione o una persecuzione a causa della Parola, egli subito viene meno. 22Quello seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto. 23Quello seminato sul terreno buono è colui che ascolta la Parola e la comprende; questi dà frutto e produce il cento, il sessanta, il trenta per uno».

In silenzio leggi e rileggi il testo biblico finché penetri in te e vi metta delle salde radici.

Dentro il Testo
Continua il discorso di Gesù, questa volta in parabole di cui il capitolo 13 di Matteo è costituito. Le parabole sono sette, tre delle quali sono comune ai sinottici: il seminatore e la sua spiegazione; il granello di senape; il lievito nella pasta; il buon grano e la zizzania e sua spiegazione; il tesoro occultato; la perla preziosa; la rete e sua spiegazione (quest'ultime quattro sono proprie del vangelo di Matteo). Sette le parabole perché per l'Ebreo il numero sette rievoca i sette giorni della settimana e della creazione, il simbolo della storia del mondo. 
A questo settenario si aggiunge ancora un'ottava parabola (vv. 51-52). Con le parabole Gesù rivela “cose nascoste sin dalla fondazione del mondo” (13,35); non si tratta dunque di un linguaggio esoterico o criptico, ma di rivelare cose che operano in maniera segreta e imprevedibile come sono i disegni di Dio. Infatti, le parabole hanno come tema il mistero del regno dei cieli.
Matteo colloca la parabola della semente con gli eventi precedenti dei capitoli 11 e 12 dove è menzionato il Regno di Dio che soffre violenza.
Un'altra caratteristica di questo capitolo è che per le prime due parabole (quella del seminatore e quella della zizzania) vi è una netta separazione tra i discepoli e le folle: le parabole sono per le folle ma la loro spiegazione è riservata unicamente ai discepoli.
Tutto questo capitolo si muove tra la casa e il mare e quasi tutte si ispirano al tema del seme, della semina e della mietitura.

Riflettere sulla Parola (Meditare) 
v. 1: Quel giorno Gesù uscì di casa e sedette in riva al mare.
La parabola inizia con questo incipit, quasi a sottolineare che il tutto accade in un solo giorno. Questo incipit è importante, in quanto "quel giorno" è un Kairos. È la giornata delle parabole, dette in circostanze diverse, ma che l'Evangelista ha raggruppato qui.
Viene evidenziata una casa da cui Gesù esce. Essa è quella in cui aveva preso dimora a Cafarnao e dove si ritrova con i suoi discepoli (la casa di Pietro a Cafarnao). Questo suo uscire viene messo in relazione al v. 3 dove viene indicato l'uscita del seminatore. Matteo a differenza di Marco vuole indicare il passaggio dalla rivelazione speciale riservata ai discepoli alla rivelazione pubblica aperta alla folla.
Nell'uscire siede lungo il mare per insegnare come un Rabbi. Il mare è il luogo di passaggio verso i popoli pagani, quindi, rappresentava la frontiera fra Israele e il mondo pagano. Il mare è il luogo dell’esodo. 
Lo sfondo del discorso in parabole è, quindi, il lago di Genesaret, chiamato “mare” secondo l’opinione della gente. Questa diventa la cattedra del suo insegnare. Il mare o il lago richiama il momento in cui Gesù aveva chiamato i suoi discepoli (4,18).
v. 2: Si radunò attorno a lui tanta folla che egli salì su una barca e si mise a sedere, mentre tutta la folla stava sulla spiaggia.
E mentre Gesù è seduto in riva al mare, sorpreso dalle stesse folle che affluiscono a lui, è costretto a salire in barca. Gesù, Parola incarnata, riunisce. Essi ascoltano Lui seduto su una barca.
La barca, simbolo della missione della Chiesa, (mentre la Chiesa in sé è rappresentata dalla casa di Pietro) poteva sollevare il maestro dal suo uditorio, divenuto troppo numeroso. Ma data la crescente ostilità dei farisei, la si può anche considerare come una misura di sicurezza.
Qui troviamo un gruppo che sembra non fare il loro esodo: la folla. Gesù, nuovo Mosé, vuole aiutare la folla ad aderire al Regno di Dio. Per farlo usa le parabole.
v. 3: Egli parlò loro di molte cose con parabole.
A differenza di Marco che parla di "insegnare", Matteo qualifica il linguaggio come un parlare. I destinatari del suo parlare sono le folle. Il termine "molte cose" può essere anche inteso come un parlare loro a lungo, tutto il giorno. 
Che cos'è la parabola? Diverse sono le traduzioni per capire: un paragone, una similitudine, qualche volta un po' enigmatica, con la realtà naturale o sociale, che serve ad illustrare in modo allusivo, un po' misterioso, una realtà che non è dell'ordine naturale, come appunto il regno di Dio. Una giusta definizione può essere questa: «una metafora o una similitudine tratta dalla natura o dalla vita quotidiana che colpisce l'ascoltatore con la sua vivezza e originalità e lo lascia in quel minimo di dubbio riguardo il significato dell'immagine sufficiente a stimolare il pensiero» (C. H. Dodd).
E disse: Ecco, il seminatore uscì a seminare.
L'accento cade sull'attività del seminatore, protagonista del racconto parabolico. Matteo mette davanti l'articolo. Ciò vuole alludere al grande Seminatore per eccellenza Gesù che «uscito» dal Padre è venuto nel mondo a gettare il seme salvifico della Parola.
C’è un brano del libro del profeta Isaia: 55,10-11, in cui si dice che: «Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l'ho mandata».
Possiamo pure dire che è una parabola in movimento, in atto perché spiega cosa sta accadendo in quel preciso istante.
vv. 4-8: Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono.
Il contadino palestinese prima semina e poi ara. Semina ovunque e poi passa l'aratro. Facendo un po' di attenzione, possiamo notare che Matteo non accenna all'aratro o all'aratura. Allora di cosa si tratta?
Certamente non si sta parlando di agricoltura. Del seminatore possiamo dire che non sapeva dov'era il terreno buono e fertile, in quanto in Israele il terreno è roccioso, quindi spine e rovi potevano crescere più rapidamente del grano e soffocarne la crescita.
Il soggetto resta il seminatore, però l'attenzione è portata sul seme, anzi sui semi. L'evangelista qui non fa altro che mettere in evidenza la fiducia usata dal seminatore, da Gesù, in quel piccolo seme gettato, che sa farsi strada nella terra arida e nel terreno buono senza sapere qual è, dà fiducia a tutto il terreno. Così è Dio: dà fiducia a tutti, nessuno escluso, perché tutti campo di Dio!
Un'altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c'era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole, fu bruciata e, non avendo radici, seccò. Un'altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. Un'altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno.
Il seminatore sapeva che da qualche parte il terreno era buono e gli avrebbe dato un buon raccolto: il trenta, il sessanta, il cento per uno.
In questi pochi versetti l'evangelista descrive quattro terreni. La strada: che vuole indicare l'impenetrabilità e quindi non può crescere, nascere qualcosa di buono. I sassi: rappresentano il facile entusiasmo, le persone volubili, superficiali. All'inizio la cosa prende, ma alla prima difficoltà finisce tutto.
Le spine: descrivono le condizioni esterne soffocanti, quando cioè la persona è sottoposta a grosse pressioni e non ha una struttura di personalità sufficientemente forte. Prova a crescere ma viene soffocata dall'esterno che è più forte della sua spinta interna. Il terreno buono: qui solo il seme germoglia e porta molto frutto.
La conclusione è che la triplice infruttuosità è controbilanciata, e in modo sovrabbondante. Il pessimismo iniziale cede il posto all'ottimismo. Il 100 è il numero della benedizione plenaria, come avvenne a Isacco quando seminò a Gerar (Gn 26,12). Nei numeri simbolici 100 (multiplo di 5 e di 50), la pienezza, 60, altra forma di pienezza (5 x 12) e 30, ennesima forma di pienezza (3 x 10).
v. 9: Chi ha orecchi, ascolti.
Nel NT l'espressione ammonitrice la ritroviamo in ognuna delle sette lettere che il Cristo indirizza alle «sette Chiese dell'Asia minore» (cfr. Ap 2,7.11.17.29; 3,6.13.22; 13,9).
Se la Parola è seme, la terra che l’accoglie è come l’orecchio che ascolta la parabola. Quindi la parabola narrata è seme. Seme della fede e della speranza che non delude.
Questo seme Dio “lo getta” a tutti, da sempre. E da sempre invita all'ascolto di Lui (cfr. Dt 5,1; Pr 2,2; Bar 3,9; Sal 78(77),1). L'evangelista Matteo ce lo ricorda dicendoci che il parlare di Dio non è subito comprensibile: chi ha orecchi, cioè capacità di comprendere attentamente, si metta in ascolto e cerchi di capire!
Solo quando viene ascoltato, e solo allora, il seme della Parola di Dio diventa vocazione, chiamata forte e vera a seguire e corrispondere l’amore grande di Dio per l’uomo.
vv. 10-11: Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: “Perché a loro parli con parabole?”. Egli rispose loro: “Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato”.
I versetti fanno osservare una certa riserva tra la folla e i discepoli. La parabola che Gesù racconta è un modo (o un invito) per stare accanto al Signore. Infatti, non è un racconto per venire incontro ai semplici. I discepoli stanno già col Signore, ma tanti altri no. Infatti, il verbo “avvicinare” vuole proprio indicare questo rapporto intimo dei discepoli con il Signore.
Discepolo vuol dire “disposto a imparare”. Se uno non vuole imparare è discolo, non è discepolo. Il discepolo è uno disposto ad accettare qualcosa di nuovo e questo indica l’apertura della mente. Ma sarà vero discepolo se a sua volta rivelerà quanto ha imparato insegnando ad altri fin quando non arriverà alla visione perfetta di Dio (1Cor 13,12; Gv 16,29).
Tra la folla possiamo trovare persone dal cuore chiuso e anche persone dal cuore aperto. La parabola ti parla a seconda della tua apertura di cuore. Tanti ascoltano e si allontanano, senza che le parabole siano diventate per loro l’occasione per stare con il Signore. Qui come in Mt 12,46-50 vi è una distinzione tra le folle e i discepoli. È quanto appare nella Chiesa delle origini, “che voleva passar oltre le parabole per cogliere direttamente la rivelazione a essa offerta dal Cristo” (G. Ravasi).
Incomincia a delinearsi la spaccatura palese nella parabola dell’ultimo giudizio (25,31-46). Chi possiede è il discepolo del Regno, chi non possiede è Israele che rischia di perdere tutto.
v. 12: Infatti a colui che ha, verrà dato e sarà nell'abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha.
È la conclusione. È il valore finale di chi è disposto ad imparare, ad accogliere il seme della Parola. Forse possiamo cogliere il senso di quest'espressione dura nella parabola dei talenti (25,14-30). Tutti hanno ricevuto dall'inizio i loro talenti. Alcuni li sfruttano e dunque abbondano nella gioia del Signore; altri li congelano rendendoli sterili. A questi è tolto tutto, poiché è come se non avessero mai avuto.
Anche qui Matteo sta dicendo la stessa cosa: le parabole hanno precisamente questo doppio effetto: aggiungono e tolgono. Più uno già sa, più è in grado di aggiungere conoscenze al suo sapere. Non a tutti, però, è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli, ma solo alle persone ben disposte, a quelle che accolgono le sue parole e le vivono.
Questa Parola di vita ci mette in guardia quindi contro una grave mancanza in cui potremmo cadere: quella di accogliere il Vangelo, facendolo magari solo oggetto di studio, di ammirazione, di discussione, ma senza metterlo in pratica.
vv. 13-15: Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono. Così si compie per loro la profezia di Isaia che dice: Udrete, sì, ma non comprenderete, guarderete, sì, ma non vedrete. Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile, sono diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli occhi, non ascoltino con gli orecchi e non comprendano con il cuore e non si convertano e io li guarisca!
Gesù non intende forzare a capire nessuno. Parla e agisce con chiarezza, ma le folle non comprendono. Per questo ricorre al linguaggio delle parabole che, essendo più velato potrà stimolare le folle a pensare di più, a riflettere sugli ostacoli che impediscono la loro comprensione dell’insegnamento di Gesù.
In qualche maniera la storia si ripete. Qui viene ricordato il tempo del profeta Isaia quando la gente era chiusa alla Parola di Dio.
Il testo di Isaia, uno dei più citati nel NT, serve a spiegare l'insuccesso della predicazione di Gesù, come già quella di Isaia (6,9-10) stesso: non si tratta di un giudizio di condanna.  
«L’indurimento del cuore, la miopia dello spirito, la sordità della mente del popolo spingono dunque Gesù a usare un annuncio della sua verità attraverso il velo dei simboli. La causa di questo modello di predicazione è, dunque, la povertà spirituale degli ascoltatori e la loro superficialità» (G. Ravasi).
vv. 16-17: Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano
Dopo le terribili parole di Isaia, Matteo riporta delle parole di approvazione rivolte da Gesù ai suoi discepoli partendo da una beatitudine. I discepoli sono esattamente in contrapposizione a loro, hanno occhi che vedono, cioè sono venuti alla luce. Sono illuminati e capiscono la realtà. E questi sono nella beatitudine.
Non è la prima volta che Gesù dice “beati”. Già l’AT risuona la beatitudine in coloro che ascoltano la Parola di Dio (cfr. Dt 6,3; Sal 1,1-3; 94,12s; 106,3; 112,1-5; 128; Pr 8,34; 29,18; Sir 14,20-27; Bar 4,4). Ma anche in altre pagine del NT lo si riscontra (cfr. Lc 11,28; Ap 1,3; 22,7). La beatitudine, inoltre ha molteplici sfumature. È legata a un vedere in profondità, a un cogliere quello che Gesù voleva comunicare. 
In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono!
Questa beatitudine è il desiderio di tutta la storia umana, della sua verità profonda, della profezia e dei giusti. La beatitudine ci riguarda ancora oggi. Saremo beati ogni qualvolta ci mettiamo in ascolto della parola di verità, della parola del Figlio, della parola che ci fa fratelli, della parola che ci dona la vita di Dio, che ci dona lo Spirito Santo, che ci dona il Suo Amore.
v. 18: Voi dunque ascoltate la parabola del seminatore.
Da qui inizia la spiegazione della parabola. Qui abbiamo un imperativo ed ha lo stesso sapore del credo religioso di Israele: “Ascolta Israele” (Es 6,4). Il termine dell’ascolto è ripetuto in ebraico per altre 1159 forme. L’ascolto non deve essere sterile ma fattivo.
L’udire nell’ascolto biblico richiede un atto mentale del comprendere e per il popolo ebreo quest’aspetto non è separabile dai sensi. Quindi interesse, applicazione e studio, se si vuole prendere sul serio la Parola.
Per questo Gesù dice: voi dunque che potete capire e non avete il cuore indurito, ascoltate la spiegazione della parabola, iniziate a capire il mistero della Parola dentro di noi. 
Essa viene chiamata la parabola del seminatore, ma la si può chiamare anche "dei quattro terreni" che corrispondono a diverse persone oppure sempre alla stessa persona in momenti diversi della propria esistenza e del suo ascolto della parola di Dio. L’uomo è identificato, col seme, col terreno e il suo modo di ascoltare.
v. 19: Ogni volta che uno ascolta la parola del Regno e non la comprende, viene il Maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada.
Questa spiegazione inizia al singolare, a differenza di Marco. È l’impegno personale, il banco di verifica del vero ascolto e della vera comprensione. È necessario entrare nel suo significato profondo e salvifico (più che intellettuale) della parola del Regno per evitare il Maligno.
Il primo terreno corrisponde a quel seme gettato lungo la strada. Matteo lo identifica con l'uditore che lo riceve. Su questo terreno il seme non ha neppure il tempo di germogliare. “Il maligno”, espressione tipica di Matteo e Giovanni, è stata ricollegata all' “impulso cattivo” che fa lotta con quello buono nel cuore dell'uomo. Il male ha origine nel non ascolto e nella disobbedienza.
vv. 20-21: Quello che è stato seminato sul terreno sassoso è colui che ascolta la Parola e l'accoglie subito con gioia, ma non ha in sé radici ed è incostante, sicché, appena giunge una tribolazione o una persecuzione a causa della Parola, egli subito viene meno.
Il secondo terreno corrisponde al seme gettato sui terreni sassosi. Qui abbiamo le tre componenti dell’uomo: identificato col seme, cioè con la Parola, con la terra e il modo di accogliere la Parola. La risposta è accogliente, cordiale, gioiosa, ma “momentanea”, cioè di breve durata: c'è un problema di impazienza, di incostanza, di mancanza di radici che viene messo in luce nei momenti di persecuzione o di tribolazione. All’entusiasmo dell’inizio segue la discontinuità della scelta, dovuta sicuramente a esperienze di sofferenza e persecuzione, inevitabili in ogni cammino di fedeltà all’ascolto di Dio.
La Parola non dà frutto a causa di una tenuta insufficiente: nella prova, "subito" uno viene meno.
v. 22: Quello seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto.
Il terzo terreno è quello infestato da spine. Qui c'è stata sia l'accoglienza, sia una certa durata nel tempo: qualcuno che ha dato una buona prova di sé. Purtroppo alle preoccupazioni materiali, a un cuore pieno di paura, senza speranza e allora davanti alle difficoltà si cede subito, si soffoca la Parola e tutto si arresta. 
Le altre realtà convivono accanto alla parola e finiscono per avere il sopravvento e per soffocarla: la preoccupazione e soprattutto l'illusione della ricchezza, ossia di “mamon”, del denaro.
v. 23: Quello seminato sul terreno buono è colui che ascolta la Parola e la comprende; questi dà frutto e produce il cento, il sessanta, il trenta per uno.
Il quarto terreno è quello che dà frutto, ma in proporzioni diverse (cento, sessanta, trenta). Uno studioso ha paragonato questi tre rendimenti con l'osservanza del triplice comandamento che gli ebrei ripetevano ogni giorno nella loro preghiera quotidiana: «Ascolta Israele, amerai il Signore con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua forza». Nella comune interpretazione rabbinica “con tutta l'anima” significa “perfino se egli ti strappa l'anima”, cioè fino al martirio; mentre “con tutta la forza” significa “con tutte le tue ricchezze” (mamon).
Il versetto riprende la parte finale del cap. 12: Chi è mia madre? Chi sono le mie sorelle ed i miei fratelli? È la gente seduta attorno a Lui che ascolta la sua Parola e che compie la volontà di Dio, che diventa uguale a Lui. Ascoltando la Parola diamo corpo a Dio nel mondo, gli diamo vita, gli siamo madre, come la madre terra che germina il seme, così ciascuno di noi fa germinare Dio nella propria vita, diventiamo madre e poi diventiamo fratelli e sorelle di Gesù perché generando la Parola, divento simile a Dio, divento figlio, divento come Gesù, suo fratello: ho prodotto il cento, il sessanta, il trenta per uno.
Quelli che producono il cento sono coloro che hanno un cuore talmente obbediente da sacrificare non solo la loro proprietà (mamon), ma anche la cosa più preziosa di tutte, la loro vita (anima), questi sono i martiri.
Quelli che producono il sessanta hanno un cuore obbediente e danno via i loro averi, ma non si trovano nell'occasione di dare le loro vite a causa della parola.
Quelli che producono il trenta hanno pure un cuore obbediente e indiviso, ma non si trovano nell'occasione di offrire, per amore di Dio, né la loro vita né la loro proprietà.
Questi tre aspetti, segnano l’atto del credere, attivo e perseverante: l’ascoltare, il comprendere e il portare frutto ognuno secondo la propria misura.

Ci fermiamo in silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato

La Parola illumina la vita e la interpella
Quale è la mia capacità di conoscere e comprendere la Parola di Dio?
Mi sento vicino a Gesù come un discepolo o piuttosto distante, come le folle?
Ognuno di noi è un terreno diverso a seconda delle situazioni della propria vita. In quali diverse occasioni sono stato/a strada, terreno pietroso, spine, terreno buono?
Cosa ho saputo donare di me stesso/a finora per dare spazio alla Parola di Dio?

Rispondi a Dio con le sue stesse parole (Pregare)
Tu visiti la terra e la disseti,
la ricolmi di ricchezze.
Il fiume di Dio è gonfio di acque;
tu prepari il frumento per gli uomini.

Così prepari la terra:
ne irrìghi i solchi, ne spiani le zolle,
la bagni con le piogge e benedici i suoi germogli.

Coroni l’anno con i tuoi benefici,
i tuoi solchi stillano abbondanza.
Stillano i pascoli del deserto
e le colline si cingono di esultanza.       

I prati si coprono di greggi,
le valli si ammantano di messi:
gridano e cantano di gioia! (Sal 64).

L’incontro con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità (Contemplare-agire)
La parola di Gesù germoglia e fruttifica in cuori disponibili alla sua azione, ma non bisogna desistere nello scuotere il torpore, l’indecisione e la durezza d’ascolto di molti credenti.