mercoledì 20 novembre 2019

LECTIO: IL SERVO SENZA PIETÀ

 Lectio divina su Mt 18,21-35


Invocare
O Dio di giustizia e di amore, che perdoni a noi se perdoniamo ai nostri fratelli, crea in noi un cuore nuovo
a immagine del tuo Figlio, un cuore sempre più grande di ogni offesa, per ricordare al mondo come tu ci ami. Per Cristo nostro Signore. Amen.

Leggere
21Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». 22E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.
23Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. 24Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. 25Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. 26Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: «Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa». 27Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito.
28Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: «Restituisci quello che devi!». 29Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: «Abbi pazienza con me e ti restituirò». 30Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito.
31Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l'accaduto. 32Allora il padrone fece chiamare quell'uomo e gli disse: «Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. 33Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?». 34Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto. 35Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».

Silenzio meditativo ripetendo mentalmente il testo cercando di ricordare quanto letto o ascoltato

Capire
Il Vangelo di oggi ci parla della necessità del perdono. Non è facile perdonare, perché certi magoni continuano a bruciare il cuore. Ci sono persone che dicono: "Perdono, ma non dimentico!" Rancore, tensioni, opinioni diverse, affronti, offese, provocazioni, tutto questo rende difficile il perdono e la riconciliazione. Cerchiamo di meditare le parole di Gesù che parlano di riconciliazione (Mt 18,21-22) e che ci parlano della parabola del perdono senza limiti (Mt 18,23-35).
Il testo fa da cerniera al brano della domenica scorsa sulla correzione fraterna. Questa domenica, riprendendo il discorso, l’evangelista presenta la Parabola del servo spietato, cercando di mettere in evidenza che, come il Padre perdona gli uomini, così anch'essi devono perdonarsi gli uni gli altri. In questa parabola Gesù non suggerisce solo di perdonare infinite volte, ma semplicemente di comprendere e giustificare con sincerità, sull’esempio del Padre che sempre perdona.
La parabola si articola in tre scene: il primo debitore, la sua supplica, e il condono del suo debito; il secondo debitore, la sua supplica e la risposta spietata del primo debitore; il meritato castigo del primo debitore.

Meditare
vv. 21-22: Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.
Questo atteggiamento sembra quasi contraddire alla «correzione fraterna». Lì si trattava di "rimprovero" giusto, severo, con una nota giudiziaria. Qui della spontaneità del cuore. I due fatti si conciliano. Il perdono non esclude la correzione previa e conseguente, e questa esige comunque e sempre il perdono.
Pietro qui, come sempre, è abbastanza sprovveduto quando chiede al Signore quante volte si debba esercitare l'arte difficile del perdono del fratello che a sua volta offende il fratello con il suo peccato (ancora il verbo hamartànó, “sbagliare il bersaglio”, “errare”, “commettere mancanza”, “fare peccato”). E azzarda la cifra simbolica, che indica una forte quantità: 7 volte.
C'è qui l'eco di un noto passo dell'AT: “Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settanta volte sette” (Gen 4, 24); la cifra 70x7, esorbitante, ha valore simbolico per dire un numero illimitato di volte: nell'AT indicava l'apice dell'odio e della vendetta, mentre nelle parole di Gesù afferma che fra i cristiani non possono esserci limiti alla misericordia e al perdono. Per questo l'evangelista presenta subito dopo una parabola, da cui si evince la motivazione che può rendere attuabile la richiesta di Gesù.
v. 23: Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi.
Questo è il versetto iniziale della parabola, il suo esordio, dove si descrive il mistero del Regno sotto l’aspetto di un giudizio; si dice che il re volle fare i conti con i suoi servi, ma non viene specificato che egli faccia i conti solo con i servi che gli sono debitori; si tratta di un’omissione di grande significato, che porta il lettore a identificare la condizione di servo con la condizione del debitore. Il re chiamato successivamente «Signore» (Kyrios) simboleggia chiaramente Dio. I suoi servi non sono certamente dei semplici servitori, ma dei collaboratori ad alto livello, come apparirà subito dal primo e unico che è stato chiamato a rapporto.
Essere servi è dunque lo stesso che essere debitori, ossia essere uomini è lo stesso che essere peccatori, e quindi necessariamente bisognosi del perdono di Dio.
Il verbo synáirô, che noi traduciamo con “regolare i conti” trova il suo senso in 25,19, la parabola dei talenti; in Lc 16,6 la parabola del fattore disonesto; Lc 19,15, la parabola delle mine, Mt 24,46-47, la parabola del servo fedele e sapiente. Il rendiconto finale è conosciuto ed è per tutti; ciascuno è chiamato ad assumersi personalmente le sue responsabilità.
v. 24: Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti.
Il talento è una misura molto grande che corrisponde a 36 Kg circa, figuriamoci diecimila. Diecimila talenti è una cifra sproporzionata che solo un re può possedere. Un debito che uno dovrebbe lavorare circa 200.000 anni senza mangiare per poterlo pagare.
Questa è la cifra che ciascuno di noi ha da Dio. La cifra, esagerata, è in realtà una pallida idea di ciò che Dio mi ha dato. Mi ha creato suo figlio, a sua immagine e somiglianza; quando gli ho rapito il dono, mi ha perdonato dandomi molto di più: il suo medesimo Figlio, nel quale mi condona se stesso!
Non ci rendiamo conto di quanto sia grande il nostro debito verso Dio, che tuttavia ci viene condonato, mentre il debito che a noi sembra grandissimo è solo quello che scriviamo sul nostro registro delle offese. Con Dio ho il debito di me stesso e di lui stesso! Solo che non è un debito ma un dono infinito che lui ha fatto, senza calcolare. Infatti l’unica misura dell’amore è il non aver misura. Noi al contrario continuiamo a calcolare con lui e con tutti!
v. 25: Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito.
Questa decisione non è una cattiveria, ma era il diritto dell’epoca (cfr. 2 Re 4,1; Is 50,1; Ne 5,5). Quindi il re prende l’iniziativa, vede che costui non ha da restituirgli il debito e si rivolge alla prassi normale, quella che è la giustizia.
Chi stabilisce con Dio un rapporto di giustizia, resta sempre insolvente, chiuso nella gabbia dei suoi debiti. La legge, giusta, non fa altro che farlo sentire in colpa.
v. 26: Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: «Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa».
Il versetto si può dividere in due parti: la preghiera e l’illusione. La preghiera è quella del debitore. La legge, che ci accusa, ci porta a invocare la magnanimità di Dio. L’illusione è quella di chi crede di poter saldare il suo debito. Finché non scopre la grazia e il perdono.
v. 27: Il padrone ebbe compassione di quel servo
Il verbo “compassione” splanchnìzomai = “ebbe viscere di misericordia”, è un verbo proprio di Dio (cfr. Mt 9,35-38). Splànchna sono le viscere materne, modo figurato per indicare la divina Misericordia. La Sacra Scrittura ci ricorda che come una madre è intimamente legata al figlio che le sue viscere hanno generato così Dio è legato all'uomo anzi «egli ti amerà più di tua madre» (cfr. Sir 4,10); «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai» (cfr. Is 49,15). Nel NT il verbo si trova solo nei sinottici, quasi sempre riferito a Gesù, per indicare il moto divino di pietà per i sofferenti.
La nostra condizione commuove il Signore: ne muove le viscere materne. Gli facciamo una pena infinita con i nostri sensi di colpa e di espiazione. La sua passione si fa compassione.
lo lasciò andare e gli condonò il debito.
Il Signore del servo è «longanime e misericordioso (cfr. Sal 7,11; 85,15; 102,8; 144,8; Es 34,6) compie il giubileo biblico della totale remissione dei debiti (Lv 25,8-22). Il verbo aphìemi = rimettere, lasciare con l'indicativo all'aoristo dice che l’azione si compie una volta per tutte.
Il Signore libera, cancella il debito. Egli è Colui che mi ha amato e ha dato se stesso per me (Gal 2,20), liberandomi da ogni colpa e peccato. L'Alto ha compassione della pochezza del basso, lo restituisce alla sua dignità e lo reintegra alla sua famiglia. Mi vuol far capire che il mio rapporto con lui non è di schiavo/padrone, ma di figlio/padre. Il credente si sa amato e perdonato gratuitamente da Dio, che lo considera figlio. Lo Spirito glielo testimonia , facendogli gridare: “Abbà!”. Non è in debito, ma in credito nei confronti di Dio; gli è Padre infatti, ed è con lui in debito del suo amore.
v. 28: Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari.
I cento danari di cui si parla, sono altrettante giornate lavorative (cfr. Mt 20,2). Cifra discreta, ma trascurabile rispetto al debito appena condonato.
Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: «Restituisci quello che devi!».
Il Signore si commuove, lo libera e gli condona il debito; lui invece afferra il suo compagno, lo soffoca e vuole che lo paghi. Ci sta nella parabola del padre misericordioso una scena simile: il padre che va incontro al figlio gettandosi al collo, lo abbraccia e lo baciò (cfr. Lc 15, 20) e il Rembrandt lo descrive nell’atteggiamento di padre e madre.
Il confronto è questo: quanto Dio è magnanimo con noi, altrettanto noi siamo meschini con gli altri. Come pensiamo di dover restituire al Padre, così pensiamo che i fratelli devono restituire a noi. Con l’altro viviamo lo stesso rapporto che abbiamo con il primo Altro, e viceversa. L’Apostolo Paolo esorta la comunità cristiana ad imitare Cristo nell’atteggiamento di accoglienza, a partire dall’accoglienza personalmente sperimentata presso di Lui: “Accoglietevi gli uni gli altri come Cristo vi ha accolto” (Rm 15,7). A partire dall’esperienza di perdono e di accoglienza, che il cristiano sperimenta nel sentirsi amato da Dio, si fonda l’offerta di un amore modellato su quello di Cristo.
vv. 29-30: Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: «Abbi pazienza con me e ti restituirò». Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito.
Il parallelismo tra le due scene è interrotto solo perché il servo a cui era stato condonato il debito non accoglie la supplica, ma fa gettare il debitore in carcere finché non avesse pagato il dovuto. Il fratello gli fa la stessa preghiera che lui ha fatto al Signore. Lo chiama ad avere nei suoi confronti gli stessi sentimenti del suo Signore. Ma egli al suo compagno il contrario di quanto il suo Signore ha fatto con lui.
Alla pazienza del re segue la cattiveria del primo servo che non ha imparato l'umiltà e la misericordia da quello che gli era accaduto.
v. 31: Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l'accaduto.
Chiunque è spettatore di ciò rimane dispiaciuto, addolorato, indignato, triste. Non ci sta la capacità di entrare nel mistero del misero. Non si pensa che si può vivere la stessa sorte, essere quel debitore.
Diversamente faccio valere i miei diritti quando non sono toccato in prima persona.
L’essere dispiaciuti comporta il vivere secondo il pensiero del padrone, di Dio. Comporta di andare a riferirlo a lui, di mettere tutto nella sua misericordia.
v. 32: Allora il padrone fece chiamare quell'uomo e gli disse: «Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato.
Il padrone da del malvagio, del maligno. Un termine molto importante perché è lo stesso che si ritrova al termine del Padre Nostro, quando Gesù invita a chiedere “liberaci dal maligno”. Il maligno è colui che è incapace di perdonare. E chi è incapace di perdonare può seminare solo morte.
La malvagità del servo non consiste nel debito che aveva, ma nel credito che realmente ha e fa valere! Il peccato più grave è sempre quello di non perdonare il fratello: è l’unico che esclude dal Padre, perché distrugge il mio essere figlio. Se non perdono, ritorno alla logica del debito: non accetto il perdono. Se caccio in prigione l’altro, caccio in prigione me.
v. 33: Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?».
Questo versetto è l’apice della parabola. Ho pietà del mio simile perché il Signore ha pietà di me. Solo così ho gli stessi sentimenti del Padre e divento suo figlio. Se non perdono, muore in me il perdono che ho ricevuto: non ne vivo!
La comunità fraterna nasce dal perdono reciproco: ognuno perdona come è perdonato. L’unico debito che abbiamo gli uni verso gli altri è l’amore vicendevole (cf. Rm 13,8), Come il mio peccato mi fa conoscere il Padre e mi fa nascere come figlio, così il peccato del fratello, nel mio perdono, mi fa vivere da figlio simile al Padre! Se non vivo da figlio, sono morto. Per questo “perdonare è un miracolo più grande che risuscitare un morto”. Pensare al proprio debito condonato, non solo rende tolleranti verso gli altri, ma addirittura magnanimi. In genere però non accettiamo davvero il perdono; infatti non perdoniamo a noi stessi, e abbiamo sempre stizza, rancore e vergogna dei nostri peccati.
v. 34: Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto.
Chi non perdona non è perdonato (6,15). Infatti il Padre ci perdona come noi perdoniamo. Per questo la riconciliazione col fratello è più importante di ogni culto (5,23s). Senza di essa finiamo in prigione noi stessi, pagando fino all’ultimo spicciolo (5,25s).
L’insegnamento di Mt 7 ci dice che questa misura predeterminata, che noi applichiamo agli altri, rappresenta il criterio del giudizio della retribuzione divina quando, scaduto il tempo della pazienza, subentrerà il tempo della giustizia. In sostanza, il giudizio di Dio, per valutare noi, prenderà in prestito il criterio che noi stessi abbiamo applicato per valutare gli altri, come si vede in Mt 7,1-2: “con la misura con la quale misurate sarete misurati”.
v. 35: Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».
È la conclusione dell’esortazione al perdono. Il peccato dei peccati è il non perdono: è uccidere in me e negli altri l’amore del Padre. Nel perdono salvo il fratello offrendogli l’amore del Padre e salvo me stesso, vivendo di questo amore. Al di fuori di questo amore ricevuto e donato - che è lo Spirito Santo - non c’è che la morte.
L’evangelista Luca ci aiuta meglio a capire il particolare: “Se un tuo fratello pecca, rimproveralo; ma se si pente, perdonagli. E se pecca sette volte al giorno contro di te e sette volte ti dice ‘Mi pento’, tu gli perdonerai” (Lc 17,3-4). L’esperienza di riconciliazione, sia che riguardi l’uomo sia che riguardi Dio, rimane, comunque, una strada impraticabile, quando l’offensore non si pente del suo sbaglio e ritiene ostinatamente di essere nel giusto.
L’evangelista sottolinea che perdonare è un fatto di cuore. È non ricordare, non tenere nel cuore il male del fratello, ricordando invece l’amore che il Padre ha per me e per lui. Se continuamente ricordo all’altro il suo errore, il perdono è davvero la peggior vendetta. Se il Signore ricorda le colpe, chi potrebbe più respirare (Sal 130,3)? Se non riesco a perdonare, cosa devo fare? Invece di prendermela con l’altro, considero che è un peccato mio di cui chiedo perdono a Dio. Sapere questo cambia già il mio atteggiamento con l’altro: penso ai miei 10.000 talenti di debito di cui Dio mi fa grazia, non ai 100 danari che l’altro mi deve.

La Parola illumina la vita
Perché trovo difficile perdonare? Cosa mi impedisce di perdonare?
Ti è successo nella tua vita di perdonare a qualcuno o di essere perdonato/a? Vale la pena perdonare?
La mia comunità è luogo di incontro con il Signore o luogo di condanna?

Pregare  Rispondi a Dio con le sue stesse parole…
Benedici il Signore, anima mia,
quanto è in me benedica il suo santo nome.
Benedici il Signore, anima mia,
non dimenticare tutti i suoi benefici.

Egli perdona tutte le tue colpe,
guarisce tutte le tue infermità,
salva dalla fossa la tua vita,
ti circonda di bontà e misericordia.        

Non è in lite per sempre,
non rimane adirato in eterno.
Non ci tratta secondo i nostri peccati
e non ci ripaga secondo le nostre colpe.

Perché quanto il cielo è alto sulla terra,
così la sua misericordia è potente su quelli che lo temono;
quanto dista l’oriente dall’occidente,
così egli allontana da noi le nostre colpe. (Sal 102).

Contemplare-agire
Il chiedere perdono è il primo passo di Dio nei nostri confronti, il dono che riceviamo quando entra per la porta del nostro cuore (Ap 3,20), perché anche noi possiamo fare il nostro passo verso il fratello o la sorella. 

LECTIO: IL BUON PASTORE

Lectio divina su Gv 10,1-16

Invocare
O Dio, nostro Padre, che nel tuo Figlio ci hai riaperto la porta della salvezza, infondi in noi la sapienza dello Spirito, perché fra le insidie del mondo sappiamo riconoscere la voce di Cristo, buon pastore, che ci dona l’abbondanza della vita. 
Egli è Dio, e vive e regna con te nell'unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen.

In ascolto della Parola (Leggere)
1 «In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un'altra parte, è un ladro e un brigante. 2 Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. 3 Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. 4 E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. 5 Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei». 6 Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro.
7 Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. 8 Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. 9 Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo. 10 Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza. 11 Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. 12 Il mercenario - che non è pastore e al quale le pecore non appartengono - vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; 13 perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.
14 Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, 15 così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. 16 E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore.

Silenzio meditativo lasciando risuonare nel cuore la Parola di Dio

Dentro il Testo
Meditiamo sul capitolo 10 di Giovanni incentrato sul tema del buon pastore. Il brano è inserito nella terza parte del “libro dei segni”, dove l’evangelista Giovanni riporta gli interventi fatti da Gesù durante le principali feste liturgiche giudaiche. 
Tutto il capitolo 10 andrebbe letto per intero, in quanto contiene uno stretto legame con il testo precedente (Gv 9: la guarigione del cieco nato, che abbiamo ascoltato nella IV domenica di quaresima) con la ripresa di alcuni temi fondamentali in Giovanni, in particolare la fede in Gesù Cristo e l'accoglienza nel nuovo popolo di Dio. I due capitoli sono a loro volta la parte finale della grossa sezione iniziata al capitolo 7 e ambientata a Gerusalemme durante la festa delle capanne, in cui il tema dominante è la discussione sull'identità di Gesù (con riferimenti simbolici alla festa, quali la luce) e le reazioni di fronte alla sua auto-manifestazione. È evidente il legame pasquale con questo capitolo giovanneo, dove sotto l'allegoria del pastore e della porta si parla dell'unico mediatore che Dio ha inviato per salvare il suo popolo (con riferimenti pure all'Esodo), mediatore che offre la sua vita.
La centralità dell'opera di Cristo Gesù nel piano di salvezza di Dio Padre appare così in piena luce, mostrando che essa si compie nel dare la vita; un modello a cui i discepoli sono invitati a guardare e in cui ogni vocazione nella Chiesa prende forma e può sussistere.

Riflettere sulla Parola (Meditare)
vv. 1-3: In verità, in verità io vi dico: 
Questo capitolo inizia con una formula solenne, si introduce una paroimia, ossia un insegnamento simbolico, segreto, misterioso, che prepara ed esige una rivelazione aperta, esplicita (Ilario de la Potterie).  
La formula "in verità, in verità vi dico" preannunzia rivelazioni molto importanti e profonde; una parola molto conosciuta, la traslitterazione dell'Ebr. amen = certamente, veramente, sinceramente, espressione che collega a Gv 9,41.
chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un'altra parte, è un ladro e un brigante. 
Il termine recinto in greco corrisponde ad una parola utilizzata per lo più per indicare il vestibolo del tempio di Gerusalemme, non ha quindi un senso pastorale, ma prettamente religioso. Israele viene presentato come il gregge di Dio che entra nei suoi recinti, ossia negli spazi interni del Tempio (cfr. Sal 100,3-4).
Anche la scelta del termine brigante si riferisce alle vicende storiche del tempo di Gesù e della comunità giovannea; infatti con questo nome erano indicati spesso gli zeloti (anche Barabba è un brigante, cfr. Gv 18,40; Mt 27,16; Lc 23,19) che in azioni dimostrative di contrasto al potere romano entravano nel recinto del tempio. Secondo alcuni esegeti l'evangelista vuole suggerire che essi sono dimostrati falsi pastori che inseguono un falso messianismo.
Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori.
Non mancano i paragoni alla quotidianità. L'immagine del pastore come colui che in nome di Dio guida il suo popolo è usuale nell'AT ed era stata predetta dai profeti (cfr. Ez 34,1-31; Zc 11,4-17).
Qui il guardiano è il portinaio dell'ovile che custodisce le pecore chiuse durante la notte e anch'egli come le pecore riconosce il pastore e gli apre la porta. Il pastore chiama le sue pecore: questo ricorda Is 43,1: "Non temere nulla perché io ti ho riscattato; io ti chiamo con il tuo nome, tu mi appartieni!". Il nome equivale all'essere. Ogni pecora viene chiamata individualmente e questa chiamata va di pari passo con l'appartenenza al pastore come nella sposa del Cantico 2,8.10:  “Una voce! Il mio diletto. Eccolo, viene saltando per i monti, balzando per le colline. Ora parla il mio diletto e mi dice: Alzati, amica mia, mia tutta bella e vieni!”.  
Giovanni ritrae il comportamento di Gesù nei confronti di coloro che hanno creduto in Lui. Le sue pecore sono coloro che hanno aderito alla parola di Gesù e di cui l'uomo cieco divenuto credente è un prototipo.
vv. 4-5: E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei».
Questi versetti sono in stretta relazione con Nm 27,16-17: "Il Signore, il Dio della vita di ogni essere vivente, metta a capo di questa comunità un uomo che li preceda nell'uscire e nel tornare, li faccia uscire e li faccia tornare, perché la comunità del Signore non sia un gregge senza pastore".
Qui Gesù è presentato come capo messianico che Dio pone a guida di una nuova umanità.
Gesù, il pastore, non fa altro che farle uscire dall'ovile, non le segue, bensì le conduce di persona, facendosi avanti ad esse per proteggerle, indicare la via, avviarle al pascolo buono, ed alle acque buone (cfr. Sal 22).
Qui appare un elemento essenziale ed importante del discepolato: l'ascolto. Non un semplice ascolto, di un udire ma di un obbedire ad Essa.
Le pecore ascoltano e seguono fedeli, come i discepoli debbono stare dietro al Maestro. L'estraneo invece non lo seguono, anzi lo fuggono.
v. 6: Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro.
Gesù usa un linguaggio particolare, sconosciuto, quasi velato, engmatico tanto da far dire all'evangelista "essi non lo compresero". Qui va ricordato che quelli a cui Gesù sta parlando sono gli stessi farisei che precedentemente avevano risposto in maniera ironica alle sue parole sul vedere e sulla cecità (Gv 9,42). Infatti, questi, non comprendono perché non vogliono appartenere al gregge del pastore, non vogliono ascoltare la sua voce, né seguirlo: non fanno esperienza del suo amore.
Quindi l'incomprensione viene dalla loro cecità e durezza di cuore (cfr. Gv 9,39-41). I discepoli comprenderanno solo dopo che sarà loro donato lo Spirito Santo (cfr. cc. 14-16).
vv. 7-10: Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. 
Gesù si rivela solennemente: "Io Sono". Secondo lo stile giovanneo, l'espressione insinua l'essere divino di Gesù (cfr. Es 3,14) espressione ripetuta con con specificazioni diverse (cfr. Gv 6,35.48.51; 8,12; 11,25 ; 14,6; 15,15).
Gesù si rivela come "la porta". Usando l'articolo, l'evangelista allude che Gesù è l'unica Porta ed esclude altri ingressi. L'immagine della porta come salvezza si trova nel sal 117,20. La porta nel linguaggio biblico non indica soltanto un luogo di passaggio, ma spesso sta a significare la città o il Tempio nel suo insieme (cfr. Sal 87,ls; 122,2).
Rivelandosi tale, Gesù è Colui che introduce nella vera vita, la strada che conduce alla salvezza (cfr. Mt 7,13-14; Lc 13,24-26). Lo sfondo AT è chiarito dal Sal 118,20: "Apriteli le porte della giustizia ed entrerò a rendere grazie al Signore! E' questa la porta del Signore, per essa entrano i giusti".
Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. 
Qui non si fa riferimento ai Patriarchi e ai profeti. SI fa riferimento ai falsi maestri (o messia) che in realtà erano mentitori e non sono stati accolti dal gregge di Israele. Uno solo è il vero Messia, l'inviato dal Padre che Israele attendeva.
Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo. Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza.
Ancora una volta, Gesù ripete: "Io sono la porta". Quasi ad insistere che esiste una sola porta da accesso al recinto, sia per il pastore che per le pecore, e questa porta è Lui, Cristo: chi infatti passa per Gesù vivrà la comunione con lui, otterrà i beni della vita divina e troverà la salvezza messianica (cfr. Is 49,4-10; Ez 34,13).
L'indicazione entrare, uscire (v. 9) nello stile semita, indica totalità quindi piena comunione con Gesù il pastore; al contrario del ladro che viene solo per rubare, uccidere e distruggere. egli è il falso maestro, colui che cerca di distogliere i credenti da Dio. 
Le pecore sono del Padre, il quale le ha affidate al Figlio. Nessuno le può distogliere dal Signore, perché il nostro Dio è un Dio geloso, e al di fuori di Lui non vi è che morte e perdizione (intesa nel senso spirituale). Il ladro ruba e ammazza: il verbo thyso, che viene tradotto con "ammazzare", ha in sé un senso sacrificale ( chi vi ucciderà penserà di rendere culto a Dio, Gv 16,2).
Gesù dona la vita in abbondanza. Ossia la salvezza in tutte le dimensioni vitali dell'uomo, la vita eterna già in atto nel credente (vedi 3,17; 12,47). Come abbiamo visto al capitolo 9 nella vicenda del cieco risanato.
Il prosieguo del discorso (Gv 10,11ss) chiarirà il dono della vita in abbondanza attraverso la morte del pastore delle pecore!
v. 11: Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore.
Nei vv. 7-10, Gesù si presentò come “porta”, in quanto egli è l’accesso alla vita. Ora, continuando il discorso, si presenta come pastore.
Prendendo in mano il testo greco, non abbiamo in Gesù un pastore qualsiasi. Egli è il pastore ideale annunziato nelle Scritture. Dice: ho kalòs che richiama alla bellezza più che alla bontà; tipica caratteristica del pastore vero che dona la vita per i suoi (cfr. 15,13).
Egli è colui che dona, che depone la propria vita. L'espressione è riportata più volte in questo brano (vv. 11.15.17.18). Gesù depone la vita «per» (hyper) le sue pecore. Questa frase richiama Mc 10,45 dove si dice che Gesù dà «la sua vita come riscatto per (anti) molti» (le due espressioni hyper e anti si equivalgono).
Il verbo «(de)porre» (tithêmi) è usato nel senso di offrire in modo consapevole e libero. Tale espressione la ritroviamo nel capitolo 13 per la lavanda dei piedi (cfr. Gv 13,4.12, dove si parla delle vesti, simbolo della vita stessa) è tipica di Giovanni per indicare il libero gesto di Gesù che si mette nella mani del Padre in favore delle pecore, gli uomini e le donne di ogni tempo, in vista della loro salvezza. Ciò scaturisce dall’amore.
La vita viene comunicata soltanto dall’amore, che è dono di sé agli altri (15,13). Il massimo dono di sé è la piena comunicazione dell’amore.
L'immagine del pastore, che troviamo anche nei sinottici in testi diversi su Gesù e le sue opere (vedi Mt 18,12-14; Lc 15,3-7; Mt 9,36-38; Mc 6,34; 14,27; Mt 10,16; 25,31-11; Lc 12,32) ha sullo sfondo molti passi AT ed ha un chiaro valore messianico (vedi Mi 5,3; Ez 34,23-31; Ger 3,15; 23,35; Sal 23; Zc 13,7-9).
vv. 12-13: Il mercenario - che non è pastore e al quale le pecore non appartengono - vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde;  perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.
L’immagine che viene presentata in questi versetti è il negativo del pastore. Infatti, il mercenario è colui che ha interesse a riscuotere per quello che fa, lo fa per soldi. Inoltre il mercenario semina l’odio, la malizia, il dubbio, il turbamento delle idee e dei sensi. Il pastore invece no: presta il suo servizio con amore rinunciando al proprio interesse, disposto a dare, deporre la vita per le pecore.
Altra figura negativa è il lupo, che non fa altro che compiere strage: rapisce e disperde. Questa figura negativa è messa in relazione con i ladri e briganti di 10,8.
Gesù non fa altro che raccogliere i figli dispersi (11,52).
Il messaggio è rivolto anche a quanti nella chiesa primitiva e di sempre svolgeranno il ruolo di pastori: anch'essi dovranno essere animati dai sentimenti qui descritti e che anche san Pietro ripropone (vedi 1Pt 5,2-4). Pure negli Atti c'è un eco di questo nel discorso di Paolo a Mileto (At 20,29.31).
vv. 14-15: Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore.
Il buon pastore, Gesù, ha una conoscenza particolare di noi, così come testimonia l'AT (cfr. Os 6,6; Am 3,2; Ger 22,16; Sal 139,1-6) e dal contesto biblico generale in cui il verbo greco ginòsko indica una conoscenza esistenziale, intima, profonda dove tutta la persona e la sua esperienza concreta è coinvolta.
Il verbo conoscere usato quattro volte nel brano indica l’amore di Gesù per i suoi discepoli. Fondamento e modello di questo è l’amore reciproco tra lui e il Padre, sorgente ultima.  La particella «come» (kathôs) comporta infatti anche questa sfumatura: è l’amore mutuo tra Gesù e il Padre che viene esteso a coloro che credono in lui, i quali perciò non sono solo amati da Gesù ma sono resi partecipi della sua comunione di vita con il Padre.
Questa conoscenza è emersa in 10,4-5 ed ha come riferimento e matrice la conoscenza tra il Padre e il Figlio, si tratta di una conoscenza reale e intensa, dall'amore (cfr. 1Cor 8,3), basata anch’essa sulla comunione di Spirito (1,32; 4,24).
Ora, questa relazione fra Gesù e i suoi è creata dalla partecipazione allo Spirito (1,16).
v. 16: E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore.
Gesù esplicita altre pecore che non sono di questo ovile e che egli deve pure condurre. Vuol dire chiaramente che lʼattuale comunità di fede non esaurisce il concetto di comunità di Gesù, ma ne rappresenta solo lʼinizio. Le altre pecore sono i gentili, i pagani, che entreranno a far parte della comunità messianica. Anch’essi ascolteranno la «voce» di Gesù, cioè crederanno in lui. I verbi al futuro si riferiscono a un tempo successivo, quello in cui la chiesa svolgerà la missione universale che le è stata affidata dal Risorto (cfr. Mt 28,19). Infatti, nelle parole di Gesù vi è anche il futuro della Chiesa. La sua missione non si limita al popolo giudeo, si estende a tutti i popoli (11,52-54).
Questo universalismo è in consonanza con la concezione di Giovanni che, fin dal Prologo, colloca il suo vangelo nel contesto della creazione. Nel pensiero dell’evangelista Giovanni uno degli effetti della morte di Cristo è il raccogliere nell’unità i dispersi (cfr. 11,52).  

Ci fermiamo in silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato

La Parola illumina la vita e la interpella
Quale rapporto ho con Gesù? Come vivo la mia fede in Lui. Il mio cammino verso il Padre attraverso Lui? È solo uno dei tanti mediatori di cui mi servo per orientare la mia vita?
Gesù è il pastore per eccellenza. Mi apro a questa rivelazione o rimango nelle tenebre della mia presunzione e autosufficienza?
Sono capace di ascoltare la voce del buon Pastore?
Mi nutro della Parola (ascolto la sua Voce) per entrare e uscire e trovare vita nella mia esperienza di fede?
Gesù, Pastore buono, vive la follia dell’amore. Mi sento pensato, amato, salvato, chiamato? Oppure penso che sia una elite riservata?
Pensando alla mia famiglia o alla mia comunità, come la mantengo unita come unico gregge?
Sono facile a dire “sono abbandonato dal Pastore”. Io, quando mi isolo dal gregge?

Rispondi a Dio con le sue stesse parole (Pregare)
Il Signore è il mio pastore:
non manco di nulla.
Su pascoli erbosi mi fa riposare,
ad acque tranquille mi conduce.
Rinfranca l’anima mia.

Mi guida per il giusto cammino
a motivo del suo nome.
Anche se vado per una valle oscura,
non temo alcun male, perché tu sei con me.
Il tuo bastone e il tuo vincastro
mi danno sicurezza.

Davanti a me tu prepari una mensa
sotto gli occhi dei miei nemici.
Ungi di olio il mio capo;
il mio calice trabocca.

Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne
tutti i giorni della mia vita,
abiterò ancora nella casa del Signore
per lunghi giorni. (Sal 22).

L’incontro con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità (Contemplare-agire)
Invoco il dono dello Spirito Santo e chiedo a Lui, che è Amore, di farmi conoscere più intimamente Gesù e di stabilire una relazione più profonda con Lui, ascoltando la sua voce e lasciandomi guidare da Lui.





martedì 19 novembre 2019

IL TESORO LA PERLA LA RETE

 Lectio divina su Mt 13,44-52


Invocare
O Padre, fonte di sapienza, che ci hai rivelato in Cristo il tesoro nascosto e la perla preziosa, concedi a noi il discernimento dello Spirito, perché sappiamo apprezzare fra le cose del mondo il valore inestimabile del tuo regno, pronti ad ogni rinunzia per l'acquisto del tuo dono.
Per Cristo nostro Signore. Amen.

In ascolto della Parola (Leggere)
44Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo.
45Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; 46trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra.
ascolta 47Ancora, il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. 48Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. 49Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni 50e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti.
51Avete compreso tutte queste cose?». Gli risposero: «Sì». 52Ed egli disse loro: «Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche».

Silenzio meditativo lasciando risuonare nel cuore la Parola di Dio

Dentro il Testo
Con questi ultimi versetti, si chiude la lectio sul cap. 13. Rimangono i vv. 53-58 dedicati all'accoglienza, o meglio alla non accoglienza, che Gesù ricevette al suo ritorno a Nazareth.
Tre parabole: tesoro, perla, rete per chiudere con una piccola descrizione dello scriba divenuto discepolo del regno dei cieli.
La parabola della rete si rivela una variazione sul tema già affrontato nella parabola della zizzania e del buon grano, le parabole del tesoro e della perla ci ricordano la necessità di fare uso anche delle ricchezze terrene pur di poter entrare nel regno dei cieli e gioire di questa appartenenza.
Tre immagini semplici e ricche di significato per la nostra vita. Ma quale rinuncia ci chiedono?

Riflettere sulla Parola (Meditare)
v. 44: Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde;
Sia la parabola del tesoro che quella della perla andrebbero in coppia, in quanto sottolineano l'idea del ritrovamento.
Il contadino scopre un tesoro senza averlo cercato. Un ritrovamento inaspettato. Il tesoro era in genere un vaso di argilla pieno di monete di oro o di argento, che i proprietari seppellivano per non perderne la proprietà in caso di guerra o di invasione di popolazioni straniere.
Il campo è la nostra realtà; è la realtà del creato ove è nascosta la sapienza creatrice di Dio. È nella nostra vita concreta, nella nostra realtà umana, nelle nostre relazioni, nelle nostre attività lavorative, etc., proprio lì è nascosto un tesoro: nelle pieghe del quotidiano, nelle vicende liete e tristi della nostra vita, in quel che succede intorno a noi, in quel che succede a noi è nascosto un tesoro.
Il contadino non se lo aspettava assolutamente di trovare nel suo campo quel tesoro e lo nasconde Di questa azione morale Gesù non dice nulla, ma utilizza l’avarizia dell’uomo come un esempio dello zelo con il quale il credente deve accaparrarsi il regno, a qualsiasi prezzo.
poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo.
Abitualmente il tema della gioia la notiamo nel vangelo di Luca (cfr. Lc 1,47; 2,10; 24,52), qui anche Matteo la vuole evidenziare. È la gioia che scaturisce dalla scoperta che determina le azioni successive.
Il versetto ci riporta a Siracide: “Un amico fedele è una protezione potente, chi lo trova, trova un tesoro” (6,14). È una massima proverbiale di cui tutti i giorni ne facciamo uso. Ciò ci fa capire la necessità di essere disposti a rinunciare a tutti gli altri beni, a vendere tutto quello che si ha, per entrare in possesso (comprare) dell'unico vero tesoro, cioè il regno dei cieli.
vv. 45-46: Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra.
In questa seconda parabola si ripete quanto detto al v. 44 ma con lieve sfumature. Il contadino trova inaspettatamente e il mercante dopo una ricerca accurata. Nel primo caso si scopre una novità inattesa, nel secondo caso si trova l’oggetto del desiderio.
Due modi diversi per dire che nella nostra vita vi è un tesoro. Che nella nostra vita vi è una perla, una ricchezza, che si trova cercandola e anche senza cercarla.
Un altro particolare è quello della gioia che qui non appare anche se il significato finale è lo stesso: vendere per comprare, investire le proprie ricchezze per acquistare la vera ricchezza.
In realtà siamo stati comprati noi, e “a caro prezzo” (1Cor 6,20). Il prezzo di questo riscatto e di questo acquisto è stato il sangue di Cristo. “Abbiamo la redenzione mediante il suo sangue” (Ef 1,7). “Cristo Gesù ha dato se stesso in riscatto per tutti” (1Tm 2,6). “Tu (Cristo) sei stato immolato e hai riscattato per Dio con il tuo sangue uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione” (Ap 5,9).
Il Regno di Dio è il tesoro che non ha prezzo. Se Esso non è presenza nella vita dell’essere umano e regna su di lui, impedisce proprio a Dio di regnare (cfr. Mt 6,24: “Non potete servire Dio e Mammona, l’idolo della ricchezza!”).
vv. 47-48: Ancora, il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci.
La parabola della rete è molto simile alla parabola della zizzania, di cui adotta il modello apocalittico che comporta, nel futuro escatologico, il giudizio universale e la separazione dei buoni dei cattivi.
Qui si parla di una rete a strascico che viene trainata da due barche per un lungo tratto, oppure viene tirata da riva con una lunga corda in modo che si riempia di pesci.
Guardare questo ai nostri giorni possiamo uscire dall’ambiente del mare per andare verso l’informatica dove “essere in rete” significa che c’è di tutto, cose buone, religiose che aiutano e cose negative, pessime, che possono distruggere e rovinare. È buona o cattiva la rete? Raccoglie di tutto, è utile, raccoglie. La rete deve essere gettata in mare e raccoglie ogni genere di cose. Il discernimento permette anzitutto di sottolineare il fatto che nella rete si trova ogni genere di pesci di cui farne una distinzione.
Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi.
Secondo le norme alimentari degli ebrei i pesci buoni sono quelli puri, che hanno pinne e squame (Lv 11,1011). Quelli impuri sono quelli che non hanno pinne e squame e vengono considerati cattivi da mangiare. Questi ultimi non vengono rigettati in mare, ma vengono proprio buttati via.
Come il grano e la zizzania devono giungere a maturazione, così la rete deve essere riempita prima che possa avvenire la cernita. Vi sono pesci buoni e pesci cattivi, come nella comunità cristiana, composta di uomini e donne “pescati” attraverso l’annuncio del Vangelo (cfr. Mt 4,19) e riuniti in una comunità che non può essere soltanto di puri e giusti.
È la rete della Chiesa universale ove c’è di tutto: la nostra particolare esperienza di chiesa, nella diocesi, nella parrocchia, nella famiglia religiosa, in questa comunità, c’è di tutto.
Il “gettare fuori” i pesci cattivi non è solo il buttar “via”, è di più, è proprio l’allontanamento, del mandare all’esterno, distante da sé, dalla comunità, ciò che non è al posto giusto. Matteo infatti usa lo stesso termine «exóteron» per indicare il destino dell’invitato a nozze che non aveva l’abito nuziale: «Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti» (Mt 22,13).
vv. 49-50: Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni
Anche qui come nella parabola della zizzania il momento del giudizio è alla fine dei tempi e c'è un tempo dedicato alla penitenza.
La separazione, la distinzione netta non è di questo mondo, non è nelle nostre possibilità; quello che i pescatori fanno quando hanno tirato la rete a riva è ciò che avverrà alla fine del mondo, alla «synteléia» al “compimento” della storia; la rete deve essere piena, quando è piena la tirano a riva; quando la storia è piena si conclude. Questa sarà l’ora della separazione tra quelli che parteciperanno in pienezza al Regno e quelli che, avendo scelto la morte, la gusteranno.
e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti.
Qui abbiamo l’immagine di una fornace ardente, il pianto e lo stridore di denti. La fornace ardente è il simbolo di quel rifiuto, quindi una nostra scelta. Il pianto evoca il pentimento, ormai inutile, di quanti si trovano per loro colpa ad essere esclusi dal regno dei cieli. Lo stridore di denti è il gesto tipico dei malvagi che meditano iniquità e tramano vendette. 
Cosa vuol dire tutto questo? Gesù vuole solamente darci un avvertimento: egli non destina nessuno alla morte eterna, ma mette in guardia, perché sa che il giudizio dovrà esserci. Sarà nella misericordia ma ci sarà, come confessiamo nel Credo: “Il terzo giorno è risuscitato, secondo le Scritture, è salito al cielo, siede alla destra del Padre. E di nuovo verrà, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, e il suo Regno non avrà fine”. Rifiutare il dono del Regno non può equivalere ad accoglierlo!
v. 51: Avete compreso tutte queste cose?". Gli risposero: "Sì".
Le parabole terminano. Più volte in questo capitolo Gesù ha detto: “chi ha orecchi per intendere, intenda!”. Chi ha inteso? Chi ha ascoltato? La comprensione delle parabole da parte dei discepoli è fondamentale. Essi devono comprendere "tutte queste cose", cioè i misteri del regno, i suoi umili inizi, le diverse reazioni, la straordinaria pienezza del regno nascosto ma rivelato in parabole e il giudizio che alla fine si avrà.
La loro risposta affermativa significa impegno e coerenza di vita a quanto hanno ascoltato e compreso.
v. 52: Ed egli disse loro: "Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche".
In questo versetto, sembra che vi sia un’allusione o autoritratto dell’evangelista Matteo grazie all'assonanza tra Matteo e mathéteutehis che significa “discepolo” o “che è stato addestrato”.
Matteo è lo scriba, l'uomo di cultura e di lettere, che è diventato discepolo del regno dei cieli. È lui che con le sue conoscenze della religione ebraica e con la sua frequentazione della predicazione di Cristo sa fare sintesi tra cose vecchie e cose nuove.
Chi ha inteso veramente è lo scriba divenuto discepolo di Gesù. Egli possiede un grande tesoro: il tesoro della sapienza (cfr. Sap 8,17-18; Pr 2,1-6), tesoro inestimabile e inesauribile (cfr. Sap 7,14). Se un discepolo è consapevole di questo tesoro, riconosce in lui il dono di Dio e può estrarre da esso cose nuove e cose antiche, perché riconosce in ogni parola dell’Antico e del Nuovo Testamento “Gesù Cristo, Sapienza di Dio” (1Cor 1,24). “In Cristo”, infatti, “sono nascosti tutti i tesori della sapienza di Dio” (Col 2,3).
Chi comprende la parola di Gesù è il vero discepolo tra la folla, rivelatore della realtà segreta del regno di Dio. Per questo può essere definito nuovo maestro della Legge: nuovo perché discepolo di Cristo e come tale partecipe della rivelazione ultima del Padre da lui fatta.

Ci fermiamo in silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato

La Parola illumina la vita e la interpella
Riconosco che sono stato comprato a caro prezzo?
Ho lasciato perdere la ricchezza terrena per guadagnare quella eterna?
Vivo nell’umiltà o mi sento migliore degli altri?
Attingo al grande tesoro, la Sapienza di Dio, giorno dopo giorno, senza stancarmi?
Con che dinamica vivo le tre parabole? Ho capito “tutte queste cose”?

Rispondi a Dio con le sue stesse parole (Pregare)
La mia parte è il Signore:
ho deciso di osservare le tue parole.
Bene per me è la legge della tua bocca,
più di mille pezzi d’oro e d’argento.

Il tuo amore sia la mia consolazione,
secondo la promessa fatta al tuo servo.
Venga a me la tua misericordia e io avrò vita,
perché la tua legge è la mia delizia.  

Perciò amo i tuoi comandi,
più dell’oro, dell’oro più fino.
Per questo io considero retti tutti i tuoi precetti
e odio ogni falso sentiero.

Meravigliosi sono i tuoi insegnamenti:
per questo li custodisco.
La rivelazione delle tue parole illumina,
dona intelligenza ai semplici. (Sal 118).

L’incontro con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità (Contemplare-agire)
Chi si accosta alla Parola di Dio senza desiderio, ne esce vuoto - e condannato. Prepariamo l'ascolto coltivando la fame della Parola, per poterne apprezzare tutto il valore (Ugo di S. Vittore).