giovedì 12 marzo 2020

LECTIO: DUE FIGLI

Lectio divina su Mt 21,28-32


Invocare
O Padre, sempre pronto ad accogliere pubblicani e peccatori appena si dispongono a pentirsi di cuore, tu prometti vita e salvezza a ogni uomo che desiste dall'ingiustizia: il tuo Spirito ci renda docili alla tua parola e ci doni gli stessi sentimenti che sono in Cristo Gesù.
Egli è Dio e vive e regna con te nell’unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen.

Leggere
28«Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli; rivoltosi al primo disse: Figlio, va’ oggi a lavorare nella vigna. 29Ed egli rispose: "Non ne ho voglia". Ma poi si pentì e vi andò. 30Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: "Sì, signore". Ma non vi andò. 31Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?". Risposero: "Il primo". E Gesù disse loro: "In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. 32Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli.

Silenzio meditativo ripetendo mentalmente il testo cercando di ricordare quanto letto o ascoltato

Capire
Il vangelo di questa domenica presenta una trilogia, che seguiremo per tre domeniche, in cui si incontra una realtà amara: i primi credenti, cioè gli Israeliti, il popolo dell'alleanza, non vuole accettare Gesù.
Gesù entrato trionfalmente a Gerusalemme (Mt 21,1-11) si mette a insegnare nel tempio. Si avvicinano a lui i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo per chiedergli con quale autorità egli insegni. Ma Gesù risponde con una domanda a trabocchetto, chiedendo loro se il battesimo di Giovanni provenisse dal cielo o dagli uomini. Questo mise gli interlocutori in difficoltà perché la loro risposta avrebbe messo a nudo la loro vera opinione riguardo a Giovanni Battista. Così essi scelsero di non rispondere e furono disarmati nella loro offensiva (Mt 21,23-27).
L’insegnamento di Gesù è fatto con tre parabole: i due figli mandati a lavorare nella vigna (il vangelo di questa domenica); i vignaioli omicidi (Mt 21,33-46); gli invitati alle nozze che rifiutano l'invito (Mt 22,1-14).
In esse si sottolinea il costante rifiuto della salvezza da parte dei capi d'Israele. È come una sintesi di tutta la storia di Israele. Il rifiuto si ripete sistematicamente, davanti a tutti gli inviati di Dio: Giovanni Battista, i profeti dell'Antico Testamento, il Figlio di Dio, i profeti del Nuovo Testamento, i missionari cristiani.
Alla fine Gesù fa una lunga e durissima denuncia contro gli scribi e i farisei (Mt 23, 1-36) e una breve e tragica accusa contro Gerusalemme, la città che non si converte (Mt 23, 37-39). È in questo contesto carico di tensione e pericoloso che Gesù pronuncia la parabola dei due figli che entrambi ci rappresentano: quando stiamo bene facciamo finta di ascoltare e facciamo anche tanti ragionamenti su Dio e su cosa dovrebbe fare. Quando stiamo male lo cerchiamo e l'ascoltiamo volentieri, proprio perché ne abbiamo bisogno e vediamo i vantaggi che ci sono a seguirlo e a dargli retta.

Meditare
vv. 28-29: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli; rivoltosi al primo disse: Figlio, va’ oggi a lavorare nella vigna.
La parabola inizia con una paternità. La vita assume una paternità. Qui la paternità è descritta da un uomo che ha due figli. Questa paternità, così come richiama la parabola del padre misericordioso, è una paternità che si manifesta nell’atteggiamento dei due figli. Gesù comincia a raccontare questa esperienza di famiglia, perché gli ascoltatori, anche loro padri di famiglia, dovevano conoscere questo fatto per esperienza propria.
Il versetto inizia con un “punto interrogativo”, quasi a provocare l’uditorio. È un invito a porre attenzione per dare una giusta risposta.
L’uditorio è il ceto dei sommi sacerdoti e gli anziani del popolo (Mt 21,23). Sono gli stessi che, per paura del popolo, non avevano voluto rispondere alla domanda sull’origine di Giovanni Battista: se veniva dal cielo o dalla terra (Mt 21,24-27). Gli stessi poi cercheranno un modo per arrestarlo (Mt 21,45-46).
Il padre invita il figlio ad andare a lavorare nella vigna. Il figlio viene invitato "oggi" a lavorare nella vigna. L'oggi sottolinea l'importanza di aderire subito all'invito del Signore ad accoglierlo e a seguirlo.
"Non ne ho voglia". Ma poi si pentì e vi andò.
Costui risponde affermativamente, ma in un modo un po' inusuale. Prima non ha voglia di andare, poi pentitosi ci va. Il versetto racchiude il verbo greco metamélomai – pentimento -; ricorda la predicazione del Battista (cfr. vv. 31-32 ma anche 3,2) e la prima predicazione di Gesù, iniziata proprio con un appello alla conversione (cfr. 3,17; Mc 1,14-15). Metamélomai indica più che altro il sentimento di rimorso per il peccato, che non porta necessariamente l’uomo a rivolgersi a Dio. Quindi, il pentimento inteso solo come rimorso per il proprio peccato può non significare realmente conversione.
Gli appelli alla conversione del Nuovo Testamento chiamano l’uomo a un orientamento nuovo e radicale della volontà a Dio, ad abbandonare perciò l’errore e a fare ritorno a colui che è il Salvatore di tutti gli uomini.
v. 30: Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: "Sì, signore". Ma non vi andò.
Anche l’altro figlio ha il medesimo invito. Qui subito abbiamo una risposta affermativa senza nessun seguito alla parola data. Guardando il testo greco, l’espressione suona così: “Io, Signore…”. Appare chiaro un “io” enfatico, che deborda dalle parole di questo figlio incoerente.
Qui risuona un altro aspetto: se il padre l`ha chiamato: “Figlio”, lui lo ha chiamato: “Signore”; non lo ha chiamato: “Padre”, e di conseguenza non ha adempiuto la sua parola. Possiamo ricordare la parabola di Luca del Padre misericordioso e prodigo d’amore (15,11-32) dove il figlio “disobbediente” e scapestrato rinuncia alla paternità e vuole essere schiavo per la pagnotta e il “figlio obbediente e rispettoso” che non lo ha mai riconosciuto come Padre ma ha sempre visto un padrone e vive da schiavo.
In tale figura il vangelo mette in evidenza le incoerenze e l’obbedienza solo formale di coloro che si trincerano dietro le apparenze, ma nei fatti mettono, davanti alle esigenze del Vangelo, quello del loro “io” dimenticando l’amorosa inquietudine della ricerca sincera della volontà di Dio.
v. 31: Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?". Risposero: "Il primo".
Qui Gesù termina la parabola esplicitando la domanda iniziale. La risposta dei sacerdoti e degli anziani viene subito e giunge rapidamente, perché si trattava di una situazione familiare ben nota ed evidente, vissuta da loro stessi nella propria famiglia e, molto probabilmente, praticata da tutti loro (e anche tutti noi) quando erano giovani. Così, nella realtà, la risposta era un giudizio non sopra i due figli della parabola, ma anche sopra loro stessi.
La loro risposta si è trasformata in un giudizio sopra i loro stessi atteggiamenti. Poiché, in passato, tante volte avevano detto al padre: "Non ci vado!", ma poi sotto la pressione dell’ambiente o del rimorso finivano per fare quello che il padre chiedeva. Nella risposta essi si mostrano come se fossero figli obbedienti. Però nessuno può vantare di obbedienza piena al Padre.
E Gesù disse loro: "In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio.
Usando come chiave la risposta data dagli stessi sacerdoti e anziani, Gesù applica la parabola al silenzio peccaminoso dei suoi uditori di fronte al messaggio di Giovanni Battista. La risposta che avevano dato diventa la sentenza della loro stessa condanna.
In linea con questa sentenza i pubblicani e le prostitute sono quelli che, inizialmente, avevano detto no al padre e che, in seguito, avevano finito per fare la volontà del Padre, perché avevano ricevuto e accettato il messaggio di Giovanni Battista, come proveniente da Dio. Mentre loro, i sacerdoti e gli anziani, sono quelli che, inizialmente, avevano detto si al padre, ma non avevano fatto quello che il padre chiedeva, perché non vollero accettare il messaggio di Giovanni Battista, neppure davanti a tanta gente che lo accettava come messaggero di Dio. Il verbo utilizzato, al presente, indica che la realtà del Regno è già inaugurata. Ed è presente qui e ora. La novità è che tutto il passato non conta più, non ha più valore, perché c’è un nuovo chairòs (tempo), il tempo inaugurato da Cristo; qui e ora ti puoi aprire alla grazia. I pubblicani e le prostitute hanno meno difese e giustificazioni rispetto a coloro che si considerano giusti e così più facilmente si possono aprire all’azione della grazia. Si può fare un collegamento all’Eucaristia: ciascuno consideri come inizio della sua vita l’Eucaristia. Cioè, l’Eucaristia ti rimette costantemente nell’oggi di Dio: “Oggi la salvezza è entrata in questa casa” (Lc 19,9).
v. 32: Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto;
La parabola di Gesù provoca un rovesciamento inatteso nei destinatari del regno. Anche qui Gesù manifesta ciò che è fondante: tutto il messaggio biblico può definirsi come l'accorato invito di Dio all'uomo peccatore perché si allontani dal male e ricerchi il bene. «Cercate il bene e non il male, sicché possiate trovare la vita. Odiate il male, amate il bene... Forse il Signore, Dio degli eserciti, avrà pietà del resto di Giuseppe» (Am 5,14-15).
La condizione dei pubblicani e le prostitute non è una condizione che impedisce loro di obbedire alla volontà di Dio. Essi sono capaci di fede: credettero in Giovanni.
La predicazione del Battista non era altro che preparare la via al Signore, passando da una logica per la quale i poveri sono da assistere, da recuperare, a un atteggiamento per il quale il vero servizio è ciò che ci fa ritenere i poveri capaci di fede.
Il loro precedere significa che essi prendono il posto dei capi di Israele. Esattori di imposte e prostitute non erano soltanto "pubblici peccatori", ma anche i peggiori collaborazionisti col potere d'occupazione romano, e i meno preoccupati di raggiungere il Regno di Dio. Ma almeno "alla fine" si sono pentiti, e pentendosi hanno fatto di più per il regno di tutti quegli osservanti che vi hanno creduto solamente a parole.
i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto.
Chi sono i pubblicani e le prostitute? Sono coloro che non vivono una appartenenza. Il credere da parte loro, sembra essere il sapersi di qualcuno, il sapere che interessano a qualcuno; che di qualcuno si possono fidare. Il rapporto che vivono non è più un rapporto mediato dal denaro, anzi, non è più nemmeno un rapporto mediato perché è un rapporto di comunione quello che sono chiamati a vivere.
Il ripetersi (tre volte) per tutto il versetto del verbo credere significa “obbedienza” alla “via della giustizia” predicata da Giovanni, che è la stessa “via di Dio” insegnata anche da Gesù (Mt 22,16), cioè la volontà del Padre che è nei cieli. Gesù e Giovanni sono coloro che hanno compiuto "ogni giustizia" (cfr. Mt 3,15).
Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli.
La mancanza di fede in Giovanni è una mancanza di fede in Gesù, e questa parabola - con la sua attualizzazione è la migliore spiegazione alla contro domanda che Gesù aveva fatto ai sommi sacerdoti e agli anziani: “Il battesimo di Giovanni proveniva dal cielo o dagli uomini?” (Mt 21,25).
Se farisei e dottori della Legge, sommi sacerdoti e scribi del popolo, rifiutano il precursore di Cristo figuriamoci Cristo vera sapienza del Padre, è segno che la loro mente è ottenebrata dall’insipienza e dalla stoltezza. Gesù li mette tutti dinanzi alla loro stoltezza. Li fa dichiarare incapaci di discernimento. Loro che sono la luce del popolo non sanno se Giovanni è da Dio o è dagli uomini. Sono privi di ogni luce.

La Parola illumina la vita
Qual è il mio atteggiamento verso la Parola di Dio? La vedo come un insieme di comandamenti da rispettare o come una storia di salvezza che entra nella mia vita?
Nell’atteggiamento dei figli riscopro anche il mio?
Mi è mai capitato di parlare tanto della volontà di Dio, ma poi di non compierla nella mia vita?
La mia vita dove la colloco: tra le prostitute e i peccatori o tra i sacerdoti e gli anziani?
Quale tipo di obbedienza Gesù mi raccomanda attraverso questa parabola perché io possa viverla?

Pregare  Rispondi a Dio con le sue stesse parole…
Fammi conoscere, Signore, le tue vie,
insegnami i tuoi sentieri.
Guidami nella tua fedeltà e istruiscimi,
perché sei tu il Dio della mia salvezza;
io spero in te tutto il giorno.

Ricòrdati, Signore, della tua misericordia
e del tuo amore, che è da sempre.
I peccati della mia giovinezza
e le mie ribellioni, non li ricordare:
ricòrdati di me nella tua misericordia,
per la tua bontà, Signore.

Buono e retto è il Signore,
indica ai peccatori la via giusta;
guida i poveri secondo giustizia,
insegna ai poveri la sua via (Sal 24).

Contemplare-agire
Nel meditare questa parabola, considero la mia fedeltà all'alleanza di Dio. Ogni giorno mi offre l'occasione di una scelta rinnovata, di una conversione sempre più profonda, di un credere più intimo.

LECTIO: LE PECORI E LE CAPRI

Lectio divina su Mt 25,31-46


Invocare
O Padre, che hai posto il tuo Figlio come unico re e pastore di tutti gli uomini, per costruire nelle tormentate vicende della storia il tuo regno d’amore, alimenta in noi la certezza di fede, che un giorno, annientato anche l’ultimo nemico, la morte, egli ti consegnerà l’opera della sua redenzione, perché tu sia tutto in tutti. 
Egli è Dio, e vive e regna con te nell'unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen.

Leggere
31 Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. 32 Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, 33 e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. 34 Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, 35 perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, 36 nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi». 37 Allora i giusti gli risponderanno: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? 38 Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? 39 Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?». 40 E il re risponderà loro: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me». 41 Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: «Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, 42 perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, 43 ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato». 44 Anch'essi allora risponderanno: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?». 45 Allora egli risponderà loro: «In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l'avete fatto a me». 46 E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna».

Silenzio meditativo: Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla

Capire
Il nostro testo fa parte di un lungo discorso escatologico (Mt 24,1-25,46) pronunciato da Gesù sul monte degli Ulivi ai suoi discepoli in disparte (Mt 24,3). Il discorso parte dall’annunzio della distruzione di Gerusalemme per parlare della fine del mondo. I due eventi si confondono come se fossero uno solo. Questa parte del discorso finisce con la venuta del Figlio dell’uomo con grande potenza e gloria. Egli manderà i suoi angeli a radunare tutti i suoi eletti (Mt 24,30-31). A questo punto il flusso cronologico dei fatti annunciati viene interrotto con l’inserzione di alcune parabole sulla necessità di vegliare per non essere sorpresi alla venuta del Figlio dell’uomo (Mt 24,24-25,30). Il discorso escatologico trova il suo culmine letterario e teologico nel nostro testo che, riallacciandosi a Mt 24,30-31, torna a parlare della venuta del Figlio dell’uomo accompagnato dagli angeli. Il raduno degli eletti prende qui la forma di un giudizio finale.
Questo discorso escatologico chiude il ministero di Gesù, cioè l’attività pubblica in cui Gesù ha predicato e operato segni, miracoli. Dopo c’è il racconto della passione. Fondamentalmente, il significato di questo discorso è un’esortazione a sintonizzare la nostra vita sul futuro che ci viene svelato davanti; il Signore ci dice quale sia il futuro della storia e ce lo dice perché impariamo a vivere il presente orientandolo verso quel futuro, perché ci possiamo preparare vegliando, rimanendo svegli, senza lasciarci addormentare o anestetizzare da tutte le diverse esperienze della vita quotidiana. Quindi, al centro di quel discorso c’è l’invito a vegliare.

Meditare
v. 31: Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. 
Figlio dell’uomo è una espressione semitica che significa semplicemente un essere umano (cfr. il parallelismo tra "uomo" e "figlio dell’uomo" in Sal 8,5). Così la usa frequentemente il libro di Ezechiele dove Dio indirizza il profeta come "figlio dell’uomo" (Ez 2,1.3.6.8; 3,1.2.4.10.16) per risaltare la distanza tra Dio che è trascendente e il profeta che è un semplice uomo. Però in Daniele 7, 13-14 l’espressione acquista un significato particolare. Il profeta vede "apparire sulle nubi del cielo uno simile ad un figlio di uomo" che riceve da Dio "potere, gloria e regno". Si tratta pur sempre di un essere umano, che però viene introdotto nella sfera di Dio. Il testo è stato interpretato sia in senso personale che collettivo, ma sempre in senso messianico. Quindi, sia che si tratti di una sola persona sia che si tratti del Popolo di Dio nel suo insieme, il Figlio dell’uomo è il Messia che inaugura il Regno di Dio, un regno eterno e universale. Il Figlio dell’uomo è Gesù Cristo, di cui viene richiamata la figura umana umile e sofferente, perché il termine ‘Figlio dell’uomo’ richiama questa debolezza della condizione umana di Gesù. Ma quel Gesù che è passato in mezzo a noi conoscendo la sofferenza, ora è presentato davanti a noi come giudice, lui è il giudice della storia. Dunque, il giudizio ha una misura umana, è misurato su un uomo, e su quell’uomo concreto che è Gesù. L’uomo autentico, l’uomo compiuto è Lui, per questo l’umanità è misurata a partire da Lui. Gesù viene presentato come un re. E qualche versetto dopo verrà proprio detto che è un Re che si insedia su quel posto di potere che gli spetta. Il vangelo di Matteo viene messo in bocca a Gesù particolarmente quando egli parla della sua passione (Mt 17,12.22;20,18.28), della sua resurrezione come evento escatologico (Mt 17,19;26,64) e del suo ritorno glorioso (Mt 24,30; 25,31).
vv. 32-33: Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, 33 e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. 
“saranno radunate davanti a lui tutte le genti” il verbo passivo richiama che colui che raduna è Dio; la fine della storia, intesa come una ricomposizione dell’umanità frammentata, è dunque dovuta alla sua azione potente, perché la storia non è proiettata verso il nulla o il caos, ma è nelle mani di Dio che raduna alla fine il suo gregge disperso. In questa espressione riecheggiano passi significativi dell’AT come quello di Gioele: “ Riunirò tutte le nazioni … e verrò a giudizio con loro” (Gl 4,2) oppure di Isaia: “Io verrò a radunare tutti i popoli e tutte le lingue; essi verranno e vedranno la mia gloria” (Is 66,18).
 “Tutte le genti (panta ta ethnê)”. Con la parola “genti” in genere la tradizione biblica intende i pagani, i goym; questo è confermato da Matteo, infatti è alle genti che deve essere annunziato il vangelo prima che venga la fine: “questo vangelo del regno sarà annunciato in tutta la terra abitata a testimonianza per tutte le genti” (Mt 24,14; 26,13). Alla fine della sua narrazione Matteo trasmette l’invito del Risorto ad “ammaestrare tutte le genti” (Mt 28,19). Si può dire allora che la locuzione tutte le genti va riferita anzitutto ai popoli pagani, che sono stati messi a confronto con il messaggio di Gesù dall’annuncio degli apostoli, dei discepoli e dei credenti in genere. Se questo è vero, Mt 25,31-46 vuole presentarci il giudizio di coloro ai quali sono inviati gli apostoli. Stando al testo di Mt, l’Israele biblico sembra già essere stato giudicato: “perciò io vi dico: vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un altro popolo che lo farà fruttificare” (Mt 21,43).
Anche i cristiani saranno giudicati nell’ultimo giorno, ma non sembra siano compresi in questo brano; infatti sempre all’interno del discorso escatologico, ma immediatamente prima del giudizio delle genti, i credenti in Cristo saranno misurati in base alla vigilanza, alla docilità nel compiere la volontà del Padre celeste, alla messa a frutto dei doni di Dio (cfr. Mt 24,36-25,31).
“…ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri…”. Questo versetto e il seguente sono un frammento di genere parabolico, che però non è sufficiente a far ritenere tutto il brano una parabola. Al Figlio dell’uomo è stata già riconosciuta la funzione regale, con il lessico del trono, della gloria, del giudizio, al v. 34 gli si attribuirà esplicitamente il titolo di Re; in questo versetto invece viene presentato come “pastore”. I due titoli di pastore e di re non sono in conflitto, descrivono invece la cura, la premura e la responsabilità di colui che ha alla fine il ruolo di giudice della storia. La separazione delle pecore (nome femminile) dai capri (nome maschile) non vuole indicare una giustizia che distingue i maschi dalle femmine, si rifà piuttosto all’uso dei pastori palestinesi che alla sera separano le due componenti del gregge, perché i secondi sono più sensibili al freddo rispetto alle pecore che meglio resistono al clima rigido. Stando al paragone la separazione sembra guidata dall’attenzione e dalla cura e non dall’atteggiamento condannatorio; se poi pensiamo che sullo sfondo del brano si intravede Ez 34, questo tratto di premura e responsabilità viene ulteriormente accentuato.
v. 34: Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo 
“allora il re dirà…: «venite benedetti del Padre mio, ereditate il regno che vi è riservato dalla fondazione del mondo»”. Matteo ama molto la locuzione Padre mio, la usa infatti 16 volte per esprimere la relazione unica del Figlio col Padre; in questo testo fa comprendere che dalla sua relazione unica col Figlio scaturisce la benedizione di Dio verso gli uomini, questa sovrabbondanza di amore che si riversa sugli uomini che sono così benedetti, cioè amati, gratificati di ogni benevolenza divina.
“Ereditate il regno che…”, è la presentazione dell’entrata in possesso del bene immenso del regno, possesso che non nasce da un diritto, ma da una gratuità che vive e cresce nella relazione Padre-figli. Quindi il dono non scaturisce dai meriti, ma dalla gratuità della paternità divina e dall’accoglienza da parte degli uomini del Figlio: è Lui che conduce al “Padre” e quindi alla relazione filiale che dona benevolenza e beatitudine.
“Che vi è riservato…” l’amore del Padre non è estemporaneo, né emotivo, ma innestato nella sua identità generativa e creatrice; per questo è un amore nei riguardi di noi figli previdente e pensato da sempre. La “riserva” ci ricorda una cosa preziosa da gustare nei momenti particolari, e qui non si tratta di vini o cibi speciali, ma del dono della familiarità divina.
vv. 35-36: perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi». 
“Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete…” La ragione dell’essere benedetti con l’eredità, cioè col divenire familiari di Dio, è aver dato da mangiare a chi ha fame, da bere a chi ha sete, ospitato i forestieri, rivestiti i nudi, visitato gli ammalati ed essere andati a trovare i carcerati. Queste opere di misericordia, che chiamiamo “corporali”, motivano il premio di coloro che le compiono o in caso contrario la condanna. Questa motivazione sembra richiamare la quinta beatitudine: “beati i misericordiosi perché troveranno misericordia” (Mt 5,7); ereditare il regno è infatti frutto della gratuità di Dio, in altri termini della sua misericordia, ma non può trovare misericordia chi non ha misericordia (cfr. Mt 18,23-35). I bisogni fondamentali del mangiare, del bere, della sanità e del decoro esterno sono particolarmente a rischio nelle categorie degli stranieri e dei carcerati, per i quali l’azione di misericordia manifesta un cuore divino. Significativo che Gesù nella sinagoga di Nazareth ricorda come Dio stesso sia coinvolto nell’amore verso questi bisognosi; la prigionia e le necessità dalla quali è venuto a liberare Cristo (Lc 4,18-19) racchiudono tutte le dimensioni dell'uomo, verso le quali veramente da parte di Dio si opera una gheulà, il riscatto, la riacquisizione della dignità e della proprietà; positivamente l’uomo diventa oggetto della eudokia di Dio, della sua benevolenza, della sua misericordia.
vv. 37-40: Allora i giusti gli risponderanno: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?». E il re risponderà loro: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me». 
“quando mai ti abbiamo veduto affamato … in verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me”. Quando le genti interrogano il re-pastore-giudice per comprendere la valutazione positiva o, rispettivamente, negativa che hanno ricevuto, egli risponde affermando che questi bisognosi sono “ i miei fratelli più piccoli” con i quali Gesù si identifica: “ l'avete (o non l’avete) fatto a me”.
Si pone un non facile problema d’interpretazione su questi “fratelli più piccoli”? Le ipotesi sono diverse, ma non necessariamente contraddittorie; fra di esse due in particolare meritano attenzione: la prima più legata allo stile di Matteo, l’altra ad una visione teologica più generale. Per la prima interpretazione “i fratelli più piccoli” sono i discepoli e quindi il criterio del giudizio è l’aver accolto o respinto il discepolo e il suo messaggio. A sostegno di questa ipotesi si fa notare che alla fine del discorso missionario (Mt 10,42) si afferma: “E chi avrà dato anche un solo bicchiere di acqua fresca a uno di questi piccoli (mikroi) perché è mio discepolo, in verità vi dico non perderà la sua ricompensa”, con la motivazione appena espressa: “chi accoglie voi accoglie me” (Mt 10,40); anche l’invito di Gesù rivolto ai discepoli affinché diventino piccoli va sulla stessa linea di identificazione (cfr. Mt 18,2-5). Inoltre Gesù non solo si identifica con i suoi discepoli che qualifica come “piccoli”, ma li chiama pure fratelli; infatti in Mt 12,49-50 si legge: “stendendo la mano verso i suoi discepoli disse: «Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli; perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre»”. Seguendo questa prima interpretazione, dunque, le genti verranno giudicate in base al loro atteggiamento nei confronti dei cristiani e l’accoglienza dovrebbe essersi manifestata mediante gesti di carità, sulla base del concreto bisogno del discepolo o del credente inviato ad annunciare Cristo. In tal senso significativo è il rapporto di Paolo con i cristiani di Filippi, come anche l’espressione dello stesso Apostolo che afferma che i Galati si sarebbero cavati gli occhi per Paolo, se ne avesse avuto bisogno (cfr Gal 4,15).
Stando ad una seconda interpretazione i “fratelli più piccoli” sarebbero i bisognosi di cibo, di acqua, di cure, di dignità, di attenzione, che per scelte sbagliate (carcerati) o per la loro razza (stranieri) sono rifiutati come estranei dal contesto sociale e culturale in cui si trovano a vivere; sono quindi nella povertà concreta e senza l’intervento di altri sono senza futuro e speranza.
Questo secondo significato sarebbe motivato dal carattere universale del giudizio, che non può limitarsi ad una prospettiva ristretta (i soli credenti), ma intende abbracciare tutti gli uomini, anche se la motivazione non si fonda certo su una base sociologica, ma cristologia: “l’avete fatto a me”. Questa affermazione esclude la semplice interpretazione filantropica per riportarla a un contesto teologico: Gesù si è fatto solidale con i poveri; lui stesso è diventato povero per compiere la volontà del Padre (cfr. Fil 2,5-11). Le opere di misericordia, per Gesù, sono la prova di una carità radicale e universale ed anche i cristiani sono quindi compresi in questo giudizio: nessuno può innalzarsi sopra il fratello, né i cristiani sugli ebrei, né gli ebrei sui pagani, né chi svolge un ministero autorevole sul semplice credente (Rm 2,9-16.25-27; 2Cor 5,10s; Rm 14,10s; 1Cor 3,11-15; 1Cor 9,27; Lc 10,30-37).
Matteo ripete in forma diversa la regola d’oro, proclamata nel discorso della montagna (“Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro” Mt 7,12) e nelle dispute (Mt 22,34-40); la comunità cristiana mostra di aver fatto proprio il linguaggio di Gesù (1Gv 4,21; Gc 1,27; 2,15). Anche l’AT conosceva le prescrizioni di misericordia (cfr. Is 58,7; Prv 19,17), ma Gesù evidenzia la necessità di passare dal riconoscimento della validità di una norma astratta alla sua attuazione nell’amore.
v. 41: Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: «Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli 
La vicinanza e l’allontanamento dal Figlio dell’uomo sono l’immagine della beatitudine o della punizione. E sono interpellati con una parola durissima: “Allontanatevi da me, maledetti dal fuoco eterno”.
Perché questa tremenda espressione “maledetti”? La maledizione è l’esperienza della morte, è il dominio della morte sulla vita dell’uomo. La prima volta che nella Bibbia si esprime una maledizione rivolta all’uomo è nel caso di Caino: l’uomo è maledetto, proprio perché ha ucciso. Ed è questa la maledizione, non è altro che questa. Non c’è da aggiungere una maledizione che venga da lontano. La maledizione sta dentro al comportamento dell’uomo che chiama la morte contro il suo fratello, ma che in realtà la prende sopra di sé; ha fatto un patto con la morte.
Non si dice che il “fuoco eterno” sia stato preparato prima della creazione del mondo, come si diceva invece del Regno. Il Regno è stato preparato da prima della creazione del mondo, mentre del fuoco eterno non si dice. Del “Regno” si dice: “è stato preparato per voi”. Del “fuoco eterno” si dice: “è stato preparato per il diavolo”. È significativo: quello che “Dio ha preparato per voi” è solo il Regno, è solo la Beatitudine. Dio ha creato l’uomo per la vita.
v. 46: E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna».
Il giudizio di condanna significa entrare nella logica diabolica. Allora, ciò che è stato preparato per il diavolo diventa la punizione, e che l’uomo prende sopra di sé. E il motivo è evidentemente quello che abbiamo già visto: non hanno usato misericordia verso il Figlio dell’uomo, non usandola verso i fratelli.
Giudizio vuole dire: separazione, divisione; e la conclusione del brano è proprio questa. Per fortuna l’ultima parola, l’ultima immagine, è quella dei giusti e della vita. Perché questo è il disegno di Dio, e solo questo. La Beatitudine è preparata da Dio per noi. La punizione è costruita da noi per noi stessi, non da Dio, non l’ha preparata lui; è una realtà di allontanamento della nostra libertà da Dio.

La Parola illumina la vita
Apriamo i nostri cuori a saperlo accogliere nell’oggi nella nostra vita per essere da lui accolti nell’eternità del suo regno.
Chi sono i fratelli più piccoli di Gesù che incontro io? 
Sono capace di vedere, amare e servire Gesù in loro?

Pregare
Il Signore è il mio pastore:
non manco di nulla.
Su pascoli erbosi mi fa riposare. 
Ad acque tranquille mi conduce.

Rinfranca l’anima mia,
mi guida per il giusto cammino
a motivo del suo nome. 

Davanti a me tu prepari una mensa
sotto gli occhi dei miei nemici.
Ungi di olio il mio capo;
il mio calice trabocca.

Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne
tutti i giorni della mia vita,
abiterò ancora nella casa del Signore
per lunghi giorni. (Sal 22)

Contemplare-agire
Portare la mente nel cuore a immedesimarsi nel mistero dell’incarnazione come solidarietà con i poveri, gli ultimi, gli affamati, … come solidarietà con ciascuno di noi nella propria singolarità.


LECTIO: IL FICO

Lectio divina su Marco 13,24-32


Invocare
O Dio, che vegli sulle sorti del tuo popolo, accresci in noi la fede che quanti dormono nella polvere si risveglieranno; donaci il tuo Spirito, perché operosi nella carità attendiamo ogni giorno la manifestazione gloriosa del tuo Figlio, che verrà per riunire tutti gli eletti nel suo regno.
Per Cristo nostro Signore. Amen.

Leggere
24 In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, 25 le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte.
26 Allora vedranno il Figlio dell'uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. 27 Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall'estremità della terra fino all'estremità del cielo.
28 Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l'estate è vicina. 29 Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte.
30 In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga. 31 Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno.
32 Quanto però a quel giorno o a quell'ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre.

Silenzio meditativo: Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio.

Capire
Ci avviamo verso la chiusura dell'anno liturgico e di conseguenza terminiamo la lettura del vangelo di Marco.
La liturgia della Parola odierna, ci presenta un discorso escatologico che occupa tutto il capitolo 13 e che Gesù avrebbe pronunciato davanti ai suoi discepoli sul monte degli Ulivi qualche giorno prima del proprio arresto. È importante notare che subito dopo questo discorso, segue il racconto della Passione del Signore. La sua morte sembrava proprio la fine di tutte le speranze che lui fosse davvero il Messia. Ma la Risurrezione di Gesù ha portato a compimento tutte le promesse ed ha aperto il futuro di una vita piena e gloriosa in compagnia di Gesù in tutta la sua potenza e magnificenza!
Il vangelo che abbiamo ascoltato è un brano apocalittico, termine che nel nostro vocabolario non rientra come pure la parola apocalisse, in quanto indica qualcosa di spaventoso, di pauroso, fine a terrorizzarci, ad avere una paura da panico; anche quelli che sono chiamati ad esserne testimoni ne sono contagiati.
In origine l’apocalisse era una rivelazione e i libri apocalittici sono nati con lo scopo di consolare; è un paradosso, ma è proprio così. Per “discorso apocalittico” s’intende spesso un discorso pauroso e minaccioso, annuncio di distruzione e di morte.
Nel linguaggio moderno il termine “Apocalisse” è venuto a significare “fine del mondo”, catastrofe definitiva, totale, terribile; rovina cosmica. Eppure “Apocalisse”, significa rivelazione, significa che l’oscurità che copre la storia del mondo viene tolta e appare con chiarezza il senso delle cose, degli avvenimenti, il destino delle persone. Non sarebbe, questo, un evento da desiderare? “Fino a quando – gridano i martiri rivolgendosi a Dio – non farai giustizia?” (Ap 6, 10). Essi desiderano che, al di là del caos della storia umana, si riveli l’armonia e la coerenza del piano divino. E questa è la prospettiva del Vangelo di oggi. Sì, è vero che vi si parla di tribolazione, di sole e luna che perdono il loro splendore. Ma questo è solo la preparazione di un evento che si presenta come atteso e desiderato.
Il brano è ambientato sul monte degli ulivi ove i discepoli chiesero a Gesù quando sarebbe accaduta la distruzione del Tempio. Egli pronunciò il suo discorso escatologico.
Questo discorso si suddivide in tre parti: il periodo della persecuzione dei discepoli di Gesù (13,5-13); la grande tribolazione, in cui si consiglia di trovare rifugio sui monti (13,14-23); dopo vi sarà la manifestazione gloriosa del Figlio dell'uomo (13,24-32), il brano di questa domenica. Il discorso escatologico si chiude con l'esortazione a vegliare per non essere sorpresi.

Meditare
vv. 24-25: In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte.
L’evangelista segna per tutti noi i giorni di Gesù che indicano la sua morte. Ma sono anche i giorni della distruzione di Gerusalemme.
La “tribolazione” di cui si parla, indica un periodo di sofferenze, di tenebre. Un tempo in cui non si sa dove siamo e dove stiamo andando.
Alla grande tribolazione si oppone una nuova realtà. L'evangelista considera vicina la parusia, anche se l'ora resta sconosciuta. Lo sconvolgimento del cosmo è descritto con espressioni tipiche del linguaggio apocalittico, in una forma stilistica accurata: i quattro elementi sono disposti due a due con il ricorso al parallelismo. È evidente il richiamo a Is 13,10 quando si parla di oscurarsi del sole e della luna, a Is 34,4 quando si parla di sconvolgimento delle potenze che sono nei cieli.
Questo fa parte ancora della speranza, perché vuole dire che tutte le realtà mondane che si presentano come forti e invincibili, e di fronte alle quali l’uomo rimane in un atteggiamento di timore e paura continua, queste potenze vengono svelate in tutta la loro fragilità e in tutta la loro debolezza. Ma tutto ciò lo possiamo leggere sotto quest’ottica: ci sono nel mondo poteri che schiacciano e che condizionano profondamente l’esistenza dell’uomo: il denaro, il potere, l’inganno, la violenza...; ci sono queste realtà, ma queste realtà che sembrano invincibili, che sembrano così salde così come è saldo il sole o la luna o le stelle, in realtà queste potenze dovranno scomparire. Infatti, il traguardo della storia umana, è la rivelazione del Figlio dell’uomo.
Gli uomini sono dispersi, lontani gli uni dagli altri per tutta una serie di separazioni che li dividono. Il Figlio dell’uomo verrà per raccoglierli e per fare di loro un popolo solo e una nazione sola.
vv. 26-27: Allora vedranno il Figlio dell'uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria.
È la contemplazione dell’uomo Dio sulla croce, la stessa che vide il centurione ai piedi della Croce e conobbe Dio (15,39). È il punto culminante del discorso escatologico di Marco.
Le parole e le immagini usate sono un insegnamento universale e non si riferiscono a fatti ben precisi. L'affermazione centrale è che Gesù verrà con "grande potenza e forza" e le sue Parole "non passeranno mai".
Il tempo dell'attesa si compie, arriva il momento della ricapitolazione di tutto in Cristo. La fine del mondo non è altro che la premessa della parusia gloriosa del Figlio dell'uomo prevista da Dn 7,13. Le nubi indicano la presenza di Dio che nelle teofanie se ne serve per scendere sulla terra. Gli attributi della sovranità divina, la potenza e la gloria, ricordati da Gesù davanti al sinedrio (14,62), non sono una minaccia per l'uomo, ma la proclamazione solenne della dignità messianica che trascende l'umanità di Cristo.
La venuta del Figlio dell’uomo con potenza vuol dire che le altre potenze decadono. Il vangelo di Marco ci dice di non lasciarci terrorizzare da quelle potenze che sembrano invincibili e di mantenere la fiducia che l’ultima parola sulla storia toccherà al Figlio dell’uomo e sarà una parola di potenza e di salvezza, di unità e di consolazione. A fronte di tutte le potenze c’è un Gesù che viene. Cosa è lo spegnersi del sole e della luna in confronto a Gesù che viene?
Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall'estremità della terra fino all'estremità del cielo.
I quattro venti, l’estremità della terra, l’estremità del cielo: è una condizione di assoluta totalità e apertura.
Chiediamoci se il Veniente non cominci a venire nel momento in cui cominciamo a ragionare in termini di “quattro venti”, di “estremità della terra e di estremità del cielo”. Verrà sì il giorno in cui la nostra vita sarà passata al vaglio, ma sarà aurora di luce e di vita eterna per coloro che sono maturati mediante la verità della sua parola e la potenza della sua Croce. Costoro, ossia "i saggi" – dice il profeta Daniele - "splenderanno come le stelle per sempre" (Dn 12,3).
Anche se non è detto esplicitamente, il fatto che egli radunerà i suoi eletti significa che vi sarà un giudizio. Gli eletti di tutto il mondo vedranno la gloria di Gesù con i loro occhi. Gli angeli che radunano gli eletti ricordano la spiegazione della parabola della zizzania in Mt 13,41-43.
vv. 28-29: Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l'estate è vicina.
Il nostro vivere da cristiani è sostanzialmente il vivere di coloro che trovano, ricercano i segni della venuta ormai prossima del Figlio dell’uomo. È significativo, in fondo, che i segni vengano individuati in un ramo che si fa tenero, in un ramo che mette le foglie. Naturalmente il ramo che si fa tenero è il germoglio della stirpe di Davide. Questo germoglio della stirpe di Iesse proclama un’estate vicina. In fondo il ramo che si fa tenero è l’albero “piantato lungo corsi d’acqua”; questo ramo che si fa tenero è l’albero della croce. Il segno che ci viene dato dell’avvicinarsi del Regno di Dio, di questa estate che è vicina, cioè della stagione della maturità, è quello che avverrà di lì a poco: la Pasqua del Signore.
Gesù porta la parabola del fico per indicare la certezza e la prossimità degli eventi annunciati. L'imperativo rivolto agli ascoltatori: Imparate! rivela il senso della similitudine: è un invito a penetrare a fondo il senso delle parole di Gesù per comprendere il progetto di Dio sul mondo. La pianta del fico che perde le foglie in autunno avanzato e le rimette tardi rispetto alle altre piante, a primavera inoltrata, annuncia l'arrivo dell'estate.
Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte.
Fra tre giorni, il primo frutto sarà appeso al tronco, fuori la porta delle mura (Eb 13,12). Con lui è giunto il regno di Dio. Basta che ci convertiamo a lui e lo seguiamo (1,15-20).
vv. 30-31: In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga.
Sono state fatte molte ipotesi sul significato di questa generazione. Più che un'affermazione cronologica si tratta di una espressione Cristologica. La Chiesa primitiva ha sempre affermato, pur sperando in una venuta a breve termine del Signore, l'incertezza del momento preciso. Ogni credente che legge, in qualsiasi tempo, può pensarsi come facente parte di questa generazione, mantenendo il senso di vigilanza e di attesa. La creazione così come la conosciamo non è eterna, mentre invece sono eterne e sempre valide le parole che Gesù ci ha detto.
Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno.
La certezza che le parole del Signore non passeranno mai infonde fiducia a chiunque riflette sulla caducità del mondo e delle cose del mondo. Costruirsi sulla Parola di Dio permetterà che non sussista l'abominio della desolazione e che il sole, la luna e le stelle non perdano il loro splendore. L'oggi di Dio diventa per l'uomo l'unica via per accedere a se stesso perché, se nelle sue parole l'oggi non sarà mai ieri né domani, non dovrà più temere la morte.
v. 32: Quanto però a quel giorno o a quell'ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre.
Frase misteriosa, forse, dal punto di vista teologico; ma ben chiara dal punto di vista esistenziale: non stare a speculare sul quando, sul momento preciso della fine. Non è importante sapere il quando, il come e il perché il mondo avrà fine, la cosa importante è ascoltare la parola di Dio e cercare in tutti i modi di essere fedeli a Lui, crescere nell'amicizia con Lui e nel desiderio di seguirLo e di amarLo. È importante una continua conversione, iniziare a vivere il tempo della fine come regola del tempo presente.
L’invito è a non perdere energie e tempo per cercare di indovinare il giorno e l’ora in cui questo avverrà. Non lo sappiamo e non lo possiamo sapere. Ci è dato di sapere che il tempo che viviamo è il tempo della vicinanza, è il tempo della conversione, dell’incontro con il Signore: il resto è fantasia. Il giorno della fine del mondo non lo sa nessuno; Dio lo ha tenuto per sé come un segreto e dobbiamo lasciarlo a lui, perché lui decida come e quando vuole. Per quanto ci riguarda, l’unica cosa importante è che sappiamo che questo è il tempo della conversione, questo è il tempo in cui il Signore è vicino e lo possiamo incontrare nella carità e nella fede.

La Parola illumina la vita
Mi capita di pensare con apprensione alla fine del mondo? Quale è il mio atteggiamento quotidiano se tengo conto che le cose di questo mondo passano?
Gesù mi invita alla responsabilità, alla vigilanza operosa, all'attesa nella fede, nella preghiera, nelle opere buone come ogni giorno mi impegno in questo?
Quando sarò davanti al Signore e Lui mi chiederà come ho vissuto il suo grande comandamento d'amore, che cosa potrò rispondere?
Cosa significa per la mia fede l'attesa del pieno compimento delle promesse di Dio: una fuga dalla realtà, o un aiuto ad essere fedele anche nel difficile cammino verso la manifestazione di Dio?

Pregare
Il Signore è mia parte di eredità e mio calice:
nelle tue mani è la mia vita.
Io pongo sempre davanti a me il Signore,
sta alla mia destra, non potrò vacillare.        

Per questo gioisce il mio cuore
ed esulta la mia anima;
anche il mio corpo riposa al sicuro,
perché non abbandonerai la mia vita negli inferi,
né lascerai che il tuo fedele veda la fossa.    

Mi indicherai il sentiero della vita,
gioia piena alla tua presenza,
dolcezza senza fine alla tua destra (Sal 15).

Contemplare-agire
Oggi porterò nel cuore e nella vita Colui che verrà “con grande potenza e gloria”, rimettendo la mia vita nelle Sue mani con amore grato e confidente.