lunedì 28 dicembre 2015

LECTIO: LA CASA SULLA ROCCIA

Lectio divina su Matteo 7,21-27

Invocare
Vieni Santo Spirito, riempi la mia casa del fuoco del tuo amore. Aiutami a restare in silenzio, per ascoltare la Parola e lasciarmi plasmare da essa. La tua Parola ferisce e risana, ma è sorgente di vita nuova.
Vieni Santo Spirito, apri gli occhi del mio cuore,e indicami la strada da seguire nelle nelle situazioni di ogni giorno, così da fare tutto in armonia con Te.

Leggere
21 Non chiunque mi dice: "Signore, Signore", entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. 22 In quel giorno molti mi diranno: "Signore, Signore, non abbiamo forse profetato nel tuo nome? E nel tuo nome non abbiamo forse scacciato demòni? E nel tuo nome non abbiamo forse compiuto molti prodigi?". 23 Ma allora io dichiarerò loro: "Non vi ho mai conosciuti. Allontanatevi da me, voi che operate l'iniquità!".
24 Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, sarà simile a un uomo saggio, che ha costruito la sua casa sulla roccia. 25 Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ma essa non cadde, perché era fondata sulla roccia. 26 Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, sarà simile a un uomo stolto, che ha costruito la sua casa sulla sabbia. 27 Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde e la sua rovina fu grande».

Capire
Quando ci si accosta al vangelo bisogna pur capire a chi indirizza l’Evangelista quanto ha scritto. Il Vangelo di Matteo. Era scritto per i cristiani convertiti dall’ebraismo, quindi per persone che tenevano molto in considerazione gli aspetti esteriori. Questo aspetto è calzante molto spesso per il nostro stile di vita in cui prevale il parlare e si dà poco spazio al fare; quanti abili parlatori, quanti profeti inutili o esegeti sapienti invece di cristiani impegnati, pronti a pagare di persona o a fare lavori “inutili” o poco “evidenti”.
Al cap. 5 del vangelo di Matteo, Gesù aprì il grande discorso evangelico con le beatitudini. Dopo aver annunziato e inaugurato i tempi nuovi della conversione in vista del regno dei cieli che è vicino (Mt 4,17), Gesù presenta un programma completo di uno stile nuovo di vita fondato sulla sua persona: È lui la “buona novella del regno” (Mt 4,23) su cui si fondano i tempi nuovi.
In questo testo particolare del settimo capitolo Gesù ribadisce che ci si entra nel regno dei cieli consapevolmente scegliendo i valori che contiene il regno con decisione e responsabilità. Una decisione che si traduce in opere che sono riconoscibili: le opere dei “figli di Dio” (Mt 5,9).

Sosto in silenzio dinanzi alla Parola, lasciandomi plasmare da Essa. Rileggo il brano aiutato da alcuni brani biblici per la meditazione
Lc 6,46; Is 29,13-14; 1Cor 12,3; Rm 2,13; Gc 1,22-25; 2,14; Lc 6,47-49; Mc 9,38; Lc 10,20

Meditare
Non chiunque mi dice: "Signore, Signore"...  ma colui che fa la volontà del Padre mio. 
Quante volte mi capita di ritrovarmi in queste parole. Le parole però non bastano, i buoni sentimenti non bastano, le buone intenzioni anche loro di per sé non bastano. Si potrebbe fare qualche distinzione, ma in tutti i modi quello che mi viene chiesto è una decisione che riguarda la vita, i comportamenti, le scelte effettive della mia vita. Il fondamento della mia sicurezza sta nell’edificare la mia esistenza sulla Parola di Dio. Il versetto racchiude questo continuo parlare, riempirsi di Dio, per poi dimenticarsi di Lui, di fare la sua volontà.
Come già altre volte (cfr. Mt 15,8), il Signore richiama i suoi ascoltatori alla necessità della coerenza fra il dire e il fare, ed invita ad aderire a Lui non solo con le parole ma anche con i fatti. Parlare è sempre molto più facile che fare, e il fatto che il Signore vuole da noi è che gli facciamo dono della nostra volontà, perché solo così riuscirà a salvarci veramente, solo così riuscirà a condurci nel suo Regno per una strada Lui solo conosce.

Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, sarà simile a un uomo saggio, che ha costruito la sua casa sulla roccia
Qui subentra un “dunque” (“perciò”) esplicativo di contenuto sapienziale, in quanto chi ascolta la parola di Dio, è assimilato all’uomo sapiente (cfr. Mt 25,2; Ez 13,10-14; 1Cor 3,12-15) per dono divino.
C’è una saggezza che conduce a costruire la propria vita in Cristo, roccia della vita. La roccia fa pensare alla sicurezza, alla salvezza. La saggezza ci conduce a fare discernimento della realtà, sugli eventi della vita con maggiore responsabilità. L’alternativa è costruire sulla sabbia, dove non c’è consistenza e sicurezza, come direbbe san Paolo: “Passa infatti la figura di questo mondo!' (1Cor 7,31). La Parola di Gesù è la roccia che dà stabilità, fondamento solido che da consistenza a ogni parola umana sul regno.
Il discepolo deve appoggiarsi a Cristo (la roccia 1Cor 10,1-4; 1Pt 2,1-10; Mt 21,42), l’unico capace di rendere incrollabile la fede del discepolo, di sottrarla alla fragilità. Il progetto cristiano non può contare sulle nostre forze, ma unicamente sull’amore di Dio. È nella forza di Dio che l’uomo trova la sua consistenza. Non c’è vera fede senza impegno morale. La preghiera e l’azione, l’ascolto e la pratica sono ugualmente importanti.

Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ma essa non cadde, perché era fondata sulla roccia. 
Leggendo il versetto mi fermo a pensare come la vita ha le sue prove quotidiane. Il testo insiste (anche al v. 27): le intemperie cadono sulla casa costruita sulla sabbia e le stesse sulla casa costruita sulla roccia. Qui la logica di Dio si incontra con la nostra. Ma è sempre la Parola che mi radica che mi fa ripetere “Sei tu, Signore, per me una roccia di rifugio” e sarà il Signore che saggerà la consistenza della mia vita.
In queste parole, in maniera implicita, abbiamo un richiamo all’obbedienza della Parola che è espressione massima e concreta, esistenziale, della fiducia e dell’amore che abbiamo verso Dio. È
questione di fedeltà e abbandono: “Porrete nel cuore e nell’anima queste mie parole” (Dt 11,18). Non è che obbedienza del figlio che si fida del Padre. “In te, Signore, mi sono rifugiato, mai sarò deluso” (Sal 31,2).

Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica… 
I versetti conclusivi, sono la conclusione, la riprova al contrario, e nel loro ripetersi e incoraggiare sottolineano l’importanza della Parola di Dio nella vita.
L’importante non è il tanto affannarsi ma il costruirsi sopra la Parola di Dio, mettendola in pratica con docilità e carità, perché senza la carità che ci unisce a Dio e alla sua volontà non siamo nulla e nulla ci giova (1Cor 13,1-13). “Le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà” (1Cor 13,8). Solo “la carità non avrà mai fine” (1Cor 13,8).
Come una casa è salda solo se è costruita sulla roccia, così la comunità, come edificio di Dio, è sorretta dal fondamento che le conferisce una saldezza incrollabile (1Cor 3,10-11; Ef 2,20; 2Tm 2,19).

Chiediamo al Signore, alla fine di questa meditazione, che la nostra esistenza sia costruita sulla conoscenza e l’adesione alla Parola, e di darci sempre la coscienza della grazia dell’amore di Dio per noi.
A Colui che era, che è e che viene, ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli.  Amen.

Vivere
Raccogli una frase del Vangelo e attualizzala nella tua vita pratica, cercando di fare il passaggio dal semplice uditore all’uditore che attualizza quanto ascolta. Fare la volontà del Padre significa ascoltare la parola di Gesù  e metterla in pratica

Dove poggio la mia casa, la mia esistenza? Nella mia vita ho fatto delle scelte che mi hanno posto di fronte alle scelte tra Dio ed il mondo?
Ho sperimentato qualche volta nella mia vita che le scelte fatte appoggiandomi alla legge di Dio mi hanno portato benedizione?
Nella mia vita è stato sempre facile operare delle scelte giuste secondo Dio? Ci sono riuscito sempre? Quando si è verificato qualche insuccesso nelle scelte, mi sono reso conto mai della giustificazione operata dalla croce di Cristo?
Come puoi contribuire all’edificazione della Chiesa?

Pregare
Mettiti in silenzio e accogli le parole di Gesù nel tuo cuore. Praticando queste parole, finirai per trasformarti in Lui. Concludi la tua preghiera con il Salmo 30

In te, Signore, mi sono rifugiato,
mai sarò deluso;
difendimi per la tua giustizia.
Tendi a me il tuo orecchio,
vieni presto a liberarmi.

Sii per me una roccia di rifugio,
un luogo fortificato che mi salva.
Perché mia rupe e mia fortezza tu sei,
per il tuo nome guidami e conducimi.

Sul tuo servo fa’ splendere il tuo volto,
salvami per la tua misericordia.
Siate forti, rendete saldo il vostro cuore,
voi tutti che sperate nel Signore.



lunedì 21 dicembre 2015

LECTIO: IL FARISEO E IL PUBBLICANO

Lectio divina su Lc 18,9-14


Invocare
O Dio, tu non fai preferenze di persone e ci dai la certezza che la preghiera dell’umile penetra le nubi; guarda anche a noi come al pubblicano pentito, e fa’ che ci apriamo alla confidenza nella tua misericordia per essere giustificati nel tuo nome. Per Cristo nostro Signore. Amen.

Leggere
9 Disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l'intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: 10 «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l'altro pubblicano. 11 Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. 12 Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo». 13 Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore». 14 Io vi dico: questi, a differenza dell'altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

Un momento di silenzio meditativo perché la Parola possa entrare in noi ed illuminare la nostra vita.

Passi utili alla meditazione
Rm 3,10; Sal 143,2; Is 32,12; 64,6; Lc 1, 46-55; 3, 12; 5,30; 15,1; 19,2; 23,27.48; Mt 6,1-6; 9,13; 21,31-32; 23,12.23.28; 24,30; Gal 6,4; 1Pt 5,5-9; Prv 29,23; Ap 1,7.

Capire
Quella del fariseo e del pubblicano è una parabola, che si pone in modo ambiguo al suo lettore. Essa, infatti, assieme alla parabola del giudice iniquo e della vedova (18,1-8), che immediatamente la precede, forma una sorta di piccola catechesi sulla preghiera, che deve essere persistente (18,1-8), umile e fiduciosa (18,9-14). Due parabole che, a loro volta, sono in qualche modo agganciate al breve discorso apocalittico (17,20-37), che le precede. Un aggancio che avviene sul tema della venuta del Signore e del giudizio (18,7-8) e della giustificazione (18,14a); e che vede nella preghiera assidua, umile e fiduciosa il giusto atteggiamento di attesa vigilante verso il Signore che viene (17,24.30).
Possiamo riassumere così: la parabola della vedova importuna è centrata sulla perseveranza perseveranza con cui portare avanti la preghiera: si deve pregare sempre, senza stancarsi, con la pazienza della fede.
La parabola dell'amico importuno esorta poi ad una preghiera fatta con fiducia: “Bussate e vi sarà aperto”. A colui che prega così, il Padre del Cielo “darà tutto ciò di cui ha bisogno”, e principalmente lo Spirito Santo che contiene tutti i doni.
La presente parabola, infine, invita a pregare con umiltà di cuore: “O Dio, abbi pietà di me, peccatore” e fare nostra la preghiera del pubblicano.
Tuttavia Luca qui non si limita al tema della preghiera, che deve alimentare il tempo di un'attesa vigilante, ma affronta anche quello della giustificazione, mettendo in rilievo il giusto atteggiamento per ottenerla (v.14a). Lo fa contrapponendo tra loro due comportamenti antitetici, presi dal mondo del giudaismo, senza tuttavia, come si è detto, voler innescare polemiche nei suoi confronti, non almeno in modo aperto. Il fariseo e il pubblicano, infatti, sono soltanto due figure tipo, due parametri con cui raffrontarsi, quasi due caricature, ma proprio per questo immediatamente coglibili dal lettore. Esse svolgono bene il loro ruolo pastorale all'interno di un raccontino, molto avvincente, incisivo e convincente.

Meditare
v. 9:  Disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l'intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri.
Il versetto ha lo stile da introduzione e ne viene spiegata la motivazione da Gesù stesso: “per alcuni che avevano l’intima presunzione”. C’è in alcuni una eccessiva fiducia in se stessi, una presunzione di essere giusti. Questo sarebbe una loro questione di coscienza, bisogna aggiungere che disprezzano gli altri.
Chi erano effettivamente questi “alcuni”, a chi in particolare erano indirizzate queste parole? Non certo a quella folla di persone che accorrevano per sentirlo parlare, e che nelle sue parole trovavano conforto e guarigioni, può darsi a qualche nuovo seguace che pensava di appartenere finalmente ad un gruppo che gli garantiva la salvezza per il solo fatto di esserci dentro; di certo la parabola viene indirizzata a quel partito giudaico dei farisei, composto da laici che appartenevano a tutte le categorie sociali, compresi gli scribi o dottori della legge. Ma la parabola non è indirizzata a tutti i farisei. Li ricordiamo, infatti come coloro che coltivavano lo studio e la devozione della scrittura, e lo sforzo di metterla in pratica con l’osservanza metodica dei suoi precetti che doveva regolare tutti gli aspetti della vita privata e pubblica del pio ebreo. “Giusto”, era colui che viveva quindi questo modello di pietà religiosa.
Paolo stesso, parlando della propria educazione, vanterà l’origine farisaica: «Fariseo quanto alla Legge... irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della Legge» (Fil 3,5-6). L’errore fondamentale di questo fariseo consiste nel negare la giustizia di Dio, pensando di riconoscere giustizia ed empietà da se stesso.
v. 10: Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l'altro pubblicano.
La cornice della parabola è formata dal Tempio e da quanti vi salgono, in particolare due personaggi, la cui definizione Luca dosa con gradualità, andando dal generico allo specifico.
Si parla di due persone per dare possibilità a tutti di riconoscersi in loro. Questi poi salgono al Tempio a pregare e questo restringe il campo verso le persone pie e devote, appartenenti al mondo giudaico. Si parla, infatti, di Tempio, di preghiera e di salire. Tutto ciò fa pensare al Tempio di Gerusalemme, posto ad un'altezza di circa 750 mt sul livello del mare, e presso il quale il pio israelita si recava almeno una volta all'anno e, là dove possibile, anche quotidianamente per la preghiera ufficiale (At 2,46; 3,1; 5,42) che si svolgeva due volte al giorno, all’ora terza (09,00 del mattino) e all’ora nona (15,00 del pomeriggio).
Infine i due uomini vengono tipizzati nella figura di un fariseo e in quella di un pubblicano.
Le due figure hanno in comune il loro essere uomini, il loro salire al Tempio e il loro intento è di pregare il loro unico e comune Dio. Ciò che li differenzia è la loro posizione sociale e il loro diverso modo di intendere il proprio rapporto con Dio, che nasce da una diversa coscienza di se stessi, da una diversa esperienza di vita e da una diversa percezione di Dio.
vv. 11-12: Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo».
Il fariseo viene presentato in piedi, nell’atrio degli Israeliti, in prospettiva del "santo dei santi" che vede da vicino attraverso la porta che conduce nell’atrio dei sacerdoti dove si svolge il culto.
Stare in piedi davanti al Signore indica la dignità dei figli, ai quali il Padre loro che li chiama, lo permette. Egli dunque sta davanti al suo Signore, invisibile Presenza nel santuario, dal quale promette ogni grazia, come parla l’intero Salterio. E prega silenziosamente. Un’azione di grazie, eucharìstò soi, io rendo grazie a Te: è la sua Eucarestia (cfr. Lc 17,16: un solo lebbroso ringrazia).
Nelle parole del fariseo abbiamo una preghiera che non risulta del tutto inedita. Infatti, ricalca un modulo talmudico che recita così: "Ti ringrazio, Signore mio, per avermi fatto partecipare alla compagnia di coloro che siedono nella casa d’insegnamento, e non a quella di coloro che siedono nell’angolo della strada; infatti come loro mi metto in cammino; ma me ne vado verso la Parola della Legge, e questi, invece, vanno in fretta verso cose futili. Mi do da fare, e anche quelli si danno da fare: mi impegno e ricevo la mia ricompensa; ed essi si impegnano, ma non ricevono alcuna ricompensa. Corro e corrono essi; corro verso la vita del mondo futuro ed essi corrono verso la fossa della perdizione".
Del fariseo, l’evangelista Luca dice che: "pregava così tra sé". Qui occorre notare un problema di traduzione, che non ci permette di entrare dentro il significato originale delle parole di Luca; detto così sembrerebbe che il fariseo stia pregando nel suo intimo, cioè senza esprimersi ad alta voce, come in una sorta di preghiera mentale. Il testo greco invece utilizza un'espressione diversa, che si potrebbe tradurre così: "il fariseo stando in piedi pregava rivolto verso se stesso".
Il fariseo è nella condizione interiore di coloro che quando pregano fanno un monologo, ossia una preghiera che non ha Dio come interlocutore ma se stessi, il che è uno dei maggiori rischi dell'esperienza della preghiera. Nella preghiera-monologo si cela un inganno: si può pensare di aver pregato, e si può persino esserne convinti, mentre in realtà ha solo parlato con se stesso.
L'espressione va dunque intesa così: “il fariseo, stando in piedi, pregava parlando con se stesso”. Le parole riportate successivamente, come contenuto del suo pregare, dimostrano che le cose stanno davvero così. Si tratta di una preghiera che ruota intorno al proprio io.
v. 13: Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore».
Il pubblicano, cioè colui che è pubblico peccatore, viene presentato come un “possessore di una coscienza”. Tre sono i suoi movimenti: si ferma a distanza; non osa alzare gli occhi; si batte il petto. Egli sa guardare nell’intimo del suo cuore e lì scopre di non essere a posto con il Signore e per questo nella sua grande umiltà gli chiede elemosina: abbi pietà di me, perdono e misericordia, riconoscendosi dinanzi a lui peccatore. È l’umiltà che vige nel pubblicano!
Nell’umiltà si vede solo la grandezza, la magnificenza, la gloria del Signore; nell’umiltà, la povertà messa a confronto con la luce che si irradia da Dio, tiene a distanza l’uomo dal suo Creatore. Non si può nell’umiltà che elevare un grido di perdono, di misericordia, di implorazione di pietà. È questo il vero rapporto tra Dio e l’uomo, perché veramente chi può dirsi giusto dinanzi a Dio e alla sua Parola, dinanzi alla sua divina volontà manifestata a noi perché noi la compiamo e la osserviamo fedelmente?
Dio è troppo grande, troppo in alto, troppo giusto, troppo santo perché l’uomo possa dichiararsi meritevole ai suoi occhi. La distanza è sempre infinita, l’abisso è incolmabile. Ecco perché bisogna accostarsi al suo trono di grazia solo alla maniera del pubblicano, perché nel cuore, in fondo, siamo pubblicani: O Dio, abbi pietà di me, peccatore.
v. 14: Io vi dico: questi, a differenza dell'altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».
Gli effetti sono devastanti per l’uno in quanto se ne ritorna a casa condannato, con due peccati in più, di giudizio e di superbia; mentre l’altro vive un momento di vera e salutare penitenza; Dio gli accorda il perdono per i suoi peccati.
Questo avviene quando il nome di Gesù Cristo diventa il centro di una vita, non si pensi che la sua invocazione sia una via breve che dispensi dalle purificazioni ascetici e da tutti gli altri sforzi. Il nome di Gesù in realtà è uno strumento un filtro attraverso il quale devono passare soltanto i pensieri, gli atti, le parole compatibili con la realtà vivente che esso simbolizza. Una specie di infatuazione della storia ha messo in discussione tutte le istituzioni, ma soltanto il vangelo, divenendo in Cristo annuncio e potenza dello spirito di vita, può guidare verso il superamento della zavorra sociologica per essere in grado di rispondere alla crisi spirituale.
Nell’uomo che torna a casa giustificato possiamo leggervi il cantico di Maria che si concretizza: Il Signore abbassa i superbi, mentre innalza gli umili dalla polvere. Le parole di Gesù rivelano l’agire di Dio. Dio non si compiace dei superbi e li abbassa; dinanzi a Dio non c’è grandezza, non c’è saggezza, non c’è intelligenza; dinanzi a lui deve esserci solo umiltà, conoscenza del proprio essere e delle proprie miserie e debolezze.
Nel momento in cui l’uomo si riconosce quello che realmente è, riconosce anche tutto ciò che Dio ha fatto per lui e quando un uomo dona a Dio tutta la gloria della propria redenzione e salvezza, Dio si compiace e concede la grazia di una più grande misericordia.
L’umiltà è la sua nuova Eucarestia perché è la virtù più cara a Dio, poiché in essa lui è visto per quel che è e per quel che fa; l’uomo è visto per quel che non fa e per quel che si è fatto a causa delle sue molteplici trasgressioni e non osservanze della legge della salvezza. Si china dinanzi alla divina Maestà e chiede quell’ulteriore aiuto, perché possa migliorarsi nella sua condotta di vita, ascendendo verso un più grande compimento della parola di Dio, che in verità è sempre inadeguato.

La Parola illumina la vita
Dopo le parole di Gesù ho ancora motivo di pensare che il mio peccato mi renda impresentabile davanti a Dio, escluso per sempre dalla sua misericordia? 
Mi rivolgo a Dio con umiltà e fiducia, oppure pretendo la sua grazia senza disponibilità a cambiare la mia vita?
È anche per me questa parabola? Rischio a volte di voler accampare particolari meriti per cui Dio deve riconoscermi giusto, come io stesso mi giudico?
Mi chiedo ancora: io, rispetto a questa parabola, dove mi colloco?

Pregare
Benedirò il Signore in ogni tempo,
sulla mia bocca sempre la sua lode.
Io mi glorio nel Signore:
i poveri ascoltino e si rallegrino.

Il volto del Signore contro i malfattori,
per eliminarne dalla terra il ricordo.
Gridano e il Signore li ascolta,
li libera da tutte le loro angosce.

Il Signore è vicino a chi ha il cuore spezzato,
egli salva gli spiriti affranti.
Il Signore riscatta la vita dei suoi servi;
non sarà condannato chi in lui si rifugia. (Sal  34, 2-3.17-19.23).

Contemplare-agire
La parabola è un invito a salire il monte giusto, piuttosto che a fare la preghiera giusta, invito a essere davanti al Dio che è solo il Dio crocifisso di Gesù. Non si tratta di fare una preghiera umile, ma di essere davanti all’Umiliato. Umiliati con l’Umiliato, per essere esaltati con Lui.

venerdì 11 dicembre 2015

LECTIO: I TALENTI

Matteo 25,14-30

Invocare
O Dio, che affidi alle mani dell'uomo tutti i beni della creazione e della grazia, fa' che la nostra buona volontà moltiplichi i frutti della tua provvidenza. Aiutaci ad ascoltare la tua voce per essere sempre operosi e vigilanti in attesa del tuo ritorno, nella speranza di sentirci servi buoni e fedeli, ed entrare nella gioia del tuo regno. Amen

Leggere
14Avverrà infatti come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. 15A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, se­condo le capacità di ciascuno; poi parti. Subito 16colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. 17Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. 18Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. 19Dopo molto tempo il padro­ne di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro. 20Si presentò colui che aveva ricevu­to cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: "Signore, mi hai consegnato cinque ta­lenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque". 21"Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone". 22Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: "Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due". 23"Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone". 24Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo ta­lento e disse: "Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e racco­gli dove non hai sparso. 25Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo". 26Il padrone gli rispose: "Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; 27avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l'interesse. 28Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. 29Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. 30E il servo inutile get­tatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti".

Capire
Il talento originariamente era una misura ovvero, il suo significato era attribuito alla bilancia e a un peso. Successivamente passò ad indicare la moneta. Oggi rimanendo solo il nome, vuole indicare la capacità, le doti migliori. La metafora viene usata per parlare di attori, cantanti, comici… L'uso non è del tutto errato, ma è secondario. Gesù non intendeva parlare dell'obbligo di sviluppare le proprie doti naturali, ma di far fruttare i doni spirituali da lui recati.
A sviluppare le doti naturali ci spinge già la natura, l'ambizione, la sete di guadagno. A volte, anzi, è necessario tenere a freno questa tendenza a far valere i propri talenti perché essa può diventare facilmente carrierismo, smania di imporsi sugli altri.
La parabola dei talenti si inserisce nel tema escatologico dell’attesa della venuta del Signore. Un uomo prima di partire per un viaggio affida i suoi beni ai servi. Durante la sua assenza essi si distinguono per il modo di reagire di fronte a questo atto di fiducia. Dopo molto tempo il padrone di quei servi ritorna e decide di regolare i conti con essi. La loro sorte dipende da come hanno agito nel tempo dell’attesa.
I talenti di cui parla Gesù sono la parola di Dio, la fede, in una parola il regno da lui annunciato. In questo senso la parabola dei talenti si affianca a quella del seminatore.

Sosto in silenzio dinanzi alla Parola, lasciandomi plasmare da Essa. Rileggo il brano aiutato da alcuni brani biblici per la meditazione
Ez 3,10; Am 3,8; Is 55,10-11; Mt 13,24- 30; Mt 13,36-43; Col 3,16; 2 Cor 13,5; Rm 7,4; Ef 5,9-10.

Meditare
un uomo che, partendo per un viaggio. 
Ciò che giustifica la consegna dei beni è la partenza per un viaggio. Ci è dato di vivere la ricchezza della misericordia di Dio nella consapevolezza che tutto ciò che ci è dato nasce da quella condizione per cui un uomo è partito per un viaggio. Nella storia della salvezza ritroviamo alcuni riferimenti a dei viaggi: il viaggio di Abramo, il viaggio di Mosè con il suo popolo, il viaggio di Gesù a Gerusalemme. Tutto ciò che siamo non ci deve fare dimenticare che se abbiamo dei doni li abbiamo in virtù di quei viaggi che nella Scrittura sono viaggi soteriologici. In tutto questo ci sta un senso di responsabilità dei cristiani. Il viaggio, deve servire per un maggiore impegno a servire con fedeltà il Signore.
chiamò i suoi servi
Il viaggio del padrone è legato alla chiamata. Sembra rivivere il riposo di Dio al termine della creazione dell’uomo. Egli riposa perché lo ha creato a sua immagine e somiglianza; l’uomo è l’unico a cui può affidare la terra in cui l’ha posto. L’uomo, quindi, è l’amministratore che gode della fiducia di Dio e Dio, ora, può riposarsi.
È nel riposo di Dio che nasce la chiamata e il servizio. In esso esprimiamo in modo sommo ciò che Cristo ha compiuto nel suo viaggio verso Gerusalemme. In fondo, rispetto al viaggio che Gesù ha compiuto, la nostra fedeltà per la nostra condizione di servi è ben poca cosa. Ma è una realtà alla quale il Signore affida un valore immenso se vissuto nella consapevolezza che tutto dovrà essere a lui reso.
consegnò loro i suoi beni. 
L’inizio della vita è la consegna di un patrimonio da parte di Dio a noi. Quel patrimonio non ce lo siamo del tutto meritato ed in fondo non appartiene del tutto a noi, perché della vita non possiamo fare ciò che vogliamo; essa appartiene al Signore ed è un dono che il Signore ci fa.
Il patrimonio qui è descritto in talenti. Un talento corrispondeva a seimila denari ed il denaro che era la retribuzione di un giorno di lavoro.
Un talento erano seimila giornate lavorative.
Gesù usa questa unità di misura per illustrare qualcosa circa la ricchezza che Dio riversa negli uomini.
Tuttavia nel Vangelo il Signore non si sofferma su quanti talenti posseggo. Nelle parole A uno diede dieci talenti, a uno cinque, a un altro due, a un altro uno
Si nota con chiarezza che la distribuzione non è uguale per tutti. Quei talenti rappresentano una varietà di doni e l’evangelista ne sottolinea le qualità umane legate alla persona: le specifiche capacità che poi saranno sviluppate nel tempo e che si trasformeranno anche in abilità particolari.  
Per chi vede la creazione dell’uomo come opera di Dio, non fa la distinzione tra talento e non talento: tutto è un talento.
Non è neppure importante la quantificazione che ci presenta il racconto evangelico; non è questo lo scopo delle parole del vangelo. La questione fondamentale riguarda l’uso dei talenti. Questo è importante. Infatti il modo di usarli è strettamente collegato col modo di intenderli, di concepirli. Il significato che io do ai talenti che posseggo determina l’uso che ne faccio.
Dio ha dotato l’uomo dei Suoi doni, perché dominasse (= amministrasse e facesse ben crescere) il creato, non per dominare (= spadroneggiare) gli altri esseri umani.
Il talento non è dato per prevaricare sul nostro simile; pertanto, dalla quantità di talenti non è lecito sviluppare un senso di superiorità verso il prossimo.
Ciascuno ha una propria dotazione personale datagli direttamente dal creatore. Come cristiani, alla luce di questa parabola ci troviamo davanti ad una vera e propria sfida, la quale, se ci riflettiamo bene, ci impegna più di quanto non pensiamo: quali sono i talenti miei e dell’altro?
se­condo le capacità di ciascuno. 
Il termine usato è dynamin:  che significa: a ciascuno secondo quanto può fare. È il talento che mette in condizione le persone di essere valorizzate. Il carisma non si sostituisce alla persona, ma si incarna. In fondo, è il dono di essere figlio che dà al figlio di essere figlio, se così si può dire, applicandolo a Gesù. Il termine dynamis è il termine usato a proposito dell’azione dello Spirito nella Chiesa, la sua potenza. Il dono non si sostituisce alla persona.
La capacità è legata al dono dello Spirito. Ecco allora l’importanza del discernimento dei doni dello Spirito.

Dopo molto tempo il padro­ne di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro. 
È il momento della verifica finale, un momento inevitabile. Il regolamento avviene con Colui che ha donato. Ci si deve aspettare il ritorno di Colui che ha donato. L’incontro è con Chi ama. Bisogna trovarsi in comunione con Chi ha donato, con Colui che ama.
L’uomo in ogni istante si trova sempre al cospetto di Dio anche se in noi la “percezione” di questa presenza non è sempre viva. Il confronto però arriva e saremo faccia a faccia. Ciascuno, quindi,  prende piena coscienza di cosa è, di come ha vissuto, delle motivazioni più profonde, di come ha sfruttato le possibilità della vita, delle sue azioni, insomma di come ha trafficato i suoi talenti.

Signore, mi hai consegnato cinque ta­lenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque.. Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due. 
Viviamo del dono di Dio e della fiducia di Dio; siamo chiamati a rispondere a Dio con la dedizione fedele. Non basta non fare il male per compiere il senso della nostra esistenza: bisogna piuttosto trasformare quello che abbiamo ricevuto secondo i progetti di Dio.
La logica del regno è dunque questa: all’inizio sta un dono di Dio che esprime la sua fiducia nell’uomo e la sua attesa; al dono di Dio l’uomo è chiamato a rispondere col suo dono e cioè utilizzando nel modo migliore tutto quello che ha ricevuto; infine a questo dono dell’uomo risponderà l’ultimo, definitivo dono di Dio che porta l’uomo nella sua stessa gioia. La ricompensa per i servi è soprattutto la partecipazione alla gioia del padrone.
Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone. 
È l’amore e la fedeltà che ha mosso i due servi. Questi si sono impegnati, perché non hanno avuto paura, hanno saputo amare ed hanno avuto il gusto di poter dare al Signore il patrimonio che avevano ricevuto arricchito con un di più messo dal loro impegno. Se uno vuole trasformare la propria vita, deve partire non con un atteggiamento di paura verso Dio, ma con un atteggiamento di fiducia, deve essere convinto che il Signore lo ami, deve restituire amore per amore. È l’amore che ci porterà a fare ciò che piace a Dio, che ci spingerà a trasformare la nostra vita secondo una forma che sia corrispondente al progetto di Dio.

Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo ta­lento e disse: "Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e racco­gli dove non hai sparso". 
Anche colui che riceve poco si presenta al cospetto del padrone. Qui egli confida la sua paura: paura della durezza e della severità del suo padrone. È sempre la natura del rapporto con il Signore che determina il comportamento quotidiano.
Il padrone risponde a tale comportamento: Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso. La malvagità è legata alla pigrizia. Il padrone non dice: ‘sapevi che io sono un uomo severo’, ma dice: ‘sapevi che io mieto dove non ho seminato, raccolgo dove non ho sparso’. In queste parole ci sta la logica del dono: mietere e raccogliere dove non si è seminato. Ma non a tutti e dato di comprenderlo. Questa non è severità ma benevolenza da parte di Dio. È l’atteggiamento di colui che ha donato, di colui che ci ha resi capaci della dynamis, della potenza dello Spirito. Il rapporto con i popoli dell’Islam dovrebbe essere vissuto proprio in questo senso.

Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo. 
Quest’uomo non ha sentito suo il dono di Dio, forse ha provato solo un favore da parte di Dio… pura grazia. Nelle sue parole si nasconde un imperativo: “riprenditelo!”. Un dono restituito, non è semplicemente rifiuto di un dono, ma rifiuto del donatore. Presa di distanza dal donatore.
Quest’uomo è come se avesse rotto e rifiutato, in certo modo, la relazione di comunione con il Padre Celeste e la Sua logica che tutto è dono. È come se avesse voluto innalzare delle barriere; mettere dei paletti ben piantati in terra per segnare dei confini, come per difendersi da qualcuno che è considerato troppo invadente…
Dio, alle parole di questo suo servo, reagisce.
La parabola del figlio prodigo ci ricorda che Dio interagisce con la vita degli esseri umani, e gli risponde: “avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse”. Tuttavia non dobbiamo lasciarci ingannare dalle apparenze, ossia dalla modalità della risposta.
Il Padre celeste non è un commerciante, né un affarista e non calcola la nostra corrispondenza in termini di dare ed avere, altrimenti saremmo sempre in svantaggio.
Sant’Agostino nelle sue Confessioni (Libro I, 4) ci illumina così:  “Non manchi mai di nulla eppure gioisci nell’acquistare; mai avaro eppure esigi gli interessati si presta qualcosa al fine di averti come debitore…per quanto, chi mai possiede qualcosa che non sia già tuo?”

Dio non vuole i nostri beni, sono già suoi, ce li ha dati lui e non è geloso del dono fatto, ma Dio è geloso dell’uomo, ma di una gelosia che è tutta colma di amore puro, ossia di bene dell’altro.
I talenti sono un suo dono: parto da una ricchezza che ricevo gratuitamente.
Usarli bene è gioco della mia volontà e libertà. Su questo, Dio , mi riconoscerà il merito.

Vivere
Far fruttificare i talenti come a lui piace è il dono che io faccio a Lui…

Pregare
Mi fermo in silenzio lasciando riposare nel cuore questa parola di salvezza, di speranza, con piena fiducia e rispondo col Salmo 127 

Beato l’uomo che teme il Signore
e cammina nelle sue vie.
Vivrai del lavoro delle tue mani,
sarai felice e godrai d’ogni bene.
La tua sposa come vite feconda
nell’intimità della tua casa;
i tuoi figli come virgulti d’ulivo
intorno alla tua mensa.
Così sarà benedetto l’uomo
che teme il Signore.
Ti benedica il Signore da Sion!
Possa tu vedere la prosperità di Gerusalemme
per tutti i giorni della tua vita.


















domenica 6 dicembre 2015

LECTIO: OPERAI OMICIDI

Mt 21,33-43

Invocare
Padre giusto e misericordioso, che vegli incessantemente sulla tua Chiesa, non abbandonare la vigna che la tua destra ha piantato: continua a coltivarla e ad arricchirla di scelti germogli, perché innestata in Cristo, vera vite, porti frutti abbondanti di vita eterna. Per il nostro Signore Gesù Cristo tuo Figlio che è Dio e vive e regna con te nell'unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen.

Leggere
33 Ascoltate un'altra parabola: c'era un uomo che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano. 34 Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. 35 Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. 36 Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo. 37 Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: «Avranno rispetto per mio figlio!». 38 Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: «Costui è l'erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!». 39 Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero. 40 Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?». 41 Gli risposero: «Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo».
42 E Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture: La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d'angolo; questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi?
43 Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti.

Silenzio meditativo: La vigna del Signore è la casa d’Israele.

Capire
La parabola degli operai omicidi è racchiusa da Matteo nella cornice di altre due parabole: quella dei due figli (Mt 21,28-32) e quella del banchetto di nozze (Mt 22,1-14). Insieme le tre parabole contengono una risposta negativa: quella del figlio al padre, di alcuni contadini al padrone della vigna, di certi invitati al re che celebra le nozze del suo figlio. Le tre parabole tendono a mostrare un unico punto: si tratta di coloro che, come non hanno accolto la predicazione e il battesimo di Giovanni, ora sono unanimi nel rifiuto dell’ultimo inviato di Dio, la persona di Gesù. L’introduzione alla prima parabola di Mt 21,28-33 è da ritenersi anche per la parabola degli operai omicidi: Giunse al tempio e mentre insegnava i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo gli si avvicinarono domandandogli: Con quale autorità agisci così? Chi ti ha dato questa autorità? É l’aristocrazia sacerdotale e quella secolare ad avvicinarsi a Gesù quando egli entra nel tempio. Sono preoccupati della popolarità di Gesù e pongono delle domande a Gesù per sapere due cose: che tipo di autorità si attribuisce nel fare quello che fa, e la provenienza di tale autorità. In realtà la seconda risolve il quesito della prima. I sommi sacerdoti e i capi del popolo esigono una prova giuridica: non si ricordano più che i profeti avevano autorità direttamente da Dio.
La parabola inizia con una citazione del cantico isaiano della vigna (Is 5, 1-7). Questa citazione è importante perché Isaia offre una chiave di lettura: “La vigna del Signore era la casa di Israele; gli abitanti di Giuda la sua piantagione preferita”. Si dovrà dunque escludere a priori qualunque interpretazione della parabola che contraddica palesemente questa premessa: il Signore della vigna cambierà i vignaioli, ma non la vigna!

Meditare
v. 33: Ascoltate un'altra parabola: c'era un uomo che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano.
La parola inizia con un imperativo (insistente, ancora una parabola) all'ascolto. È la terza parabola con protagonista la vigna.
Questa insistenza significa la nostra incapacità di metterci in ascolto e nello stesso tempo, un richiamo alla professione di fede: Shemà! Le parole dello Shemà sono 245. Ripetendone l'ultima espressione diventano 248, tante quante sono, per tradizione, le membra del corpo umano. Ciò vuole ricordare che bisogna aderire alle parole dello Shemà con tutta la propria persona. Ecco perché Gesù dice: “ascoltate!”, per porre attenzione con tutta la persona a quanto sta per dire.
L'attenzione verte su un uomo, un possidente di un terreno. Questi prende l’iniziativa di piantare una vigna. Tale attenzione e cura viene descritta da Matteo con cinque verbi: piantò... circondò... scavò... costruì... affidò.
L’uomo, dopo aver piantato la vigna, l’affida a dei vignaioli e parte lontano.
Il Regno di Dio non è offerto in dono ai vignaioli. Prova ne è che viene dato in affitto (soprattutto nel testo parallelo di Marco si specifica questo) ai vignaioli (cfr. anche Mt 25,14). Il Regno di Dio non è offerto in dono, ma il regno di Dio “è” il donare, è il dono. Dio non si offre in dono, Dio è il dono, è il donare. E i vignaioli pagano un affitto, pagano un prezzo. Non per accogliere il dono si paga un prezzo, ma per entrare nel dono, per avere parte a Colui che è il dono, che è il donarsi, si paga un prezzo. E il prezzo è diventare simili al dono, diventare come il donare. Non solo imparare a donare, non solo fare dei doni, non solo fare della vita un dono, ma essere il dono, essere il donare.
vv. 34-36: Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo.
L’uomo è il padrone della vigna compreso i suoi frutti. I servi non hanno il ruolo di esattori; infatti sono i profeti che Dio inviò ad Israele nei vari momenti della sua storia. La presenza dei servi dice la non rassegnazione di Dio a vedersi escluso da questo rapporto di comunione, da questo rapporto di amore. Un amore che continua ad essere bastonato, ucciso. Un trattamento riservato dal popolo eletto ai messaggeri di Dio (cfr. Mt 23,37). Il profeta viene anche lapidato, così come accadde a Zaccaria in 2Cr 24,20-22 (cfr. Mt 23,35). Il contadino, coloro che sono installati nel potere non hanno il senso del cambiamento, ma mantenere la loro posizione di privilegio, di prestigio.
vv. 37-38: Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: «Avranno rispetto per mio figlio!». Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: «Costui è l'erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!».
L’invio del Figlio è espressione dell'incarnazione del Verbo. È l'espressione di un Padre che ha dato fondo a tutta la sua capacità di alleanza, che non si è risparmiato, per il quale conta questa reciprocità di amore di coloro nei confronti dei quali ha avuto una grande cura.
Ma il cuore dell'uomo è sempre ostinato, duro, invidioso... Il loro ragionamento non guarda in faccia nessuno: Questo è l’erede, uccidiamolo e avremo noi l’eredità. Ed è vero. “Questi è l’erede; su uccidiamolo e l’eredità sarà nostra. E presolo, lo cacciarono fuori della vigna e l’uccisero”.
Il problema non è tanto il pensare di poter possedere (l’eredità sarà nostra) e nemmeno tanto di aver ucciso l’erede (Dio avrebbe perdonato anche questo). Il vero problema è aver gettato l’erede fuori della vigna: in questo modo i vignaioli si sono esclusi dalla Trinità, da quel darsi eterno del Padre al Figlio nell’Amore. L’essere fuori dalla Trinità è la morte. Poiché la vita è in quell’eterno “darsi reciproco” che verrà affidato ad altri.
v. 39: Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero.
I vignaioli omicidi, senza saperlo, pronunciano una profezia. È evidente il riferimento alla passione di Gesù, condotto fuori dalla città per essere crocifisso (Gv 19,20; Eb 13,12). Viene alla mente la folla che accompagna Gesù alla crocifissione e che, ancora una volta in modo ignaro, grida: “Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli”. E sarà così. Ma proprio nella sua condizione di “cacciato fuori” dalla vigna e attraverso la sua crocifissione Gesù ci rende partecipi della sua eredità. Per noi la condizione di crocifisso è una condizione che pone fine al nostro rapporto con Dio; per Dio la crocifissione del suo Figlio esprime in pienezza la sua misericordia per noi.
Dell’eredità tutti possono essere partecipi per la decisione del Padre di consegnarci il suo Figlio e per il dono che Gesù ha deciso di fare della sua vita. In fondo la nostra vocazione è la vocazione di coloro che si sanno partecipi della comunione con Dio proprio per i “cacciati fuori”. Va in questo senso anche la citazione del Salmo: “la pietra scartata dai costruttori è diventata testata d’angolo” (Sal 118,22-23). Attenzione: è la pietra scartata che diventa testata d’angolo. Non è che ci sia una azione previa per cui la pietra scartata viene di nuovo quadrata; ma in quanto scartata è pietra d’angolo.
vv. 40-41: Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?». Gli risposero: «Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo».
I principi dei sacerdoti e gli anziani del popolo non hanno capito la logica di Dio, che non esita a donare il suo Figlio per la vita del mondo. Ma soprattutto non hanno capito che quei malvagi su cui invocano la morte sono loro. Proprio loro sono quei vignaioli omicidi che non esiteranno, nella passione del Signore, a mettere a morte Gesù. Ma in quei malvagi potremmo essere anche noi, perché nessuno, durante la passione di Gesù, si è schierato dalla sua parte o a sua difesa. A tutti e a ciascuno è rivolto quel che dice S. Pietro: “Questo Gesù che voi avete crocifisso”. "Dio ha un progetto per i suoi amici, ma purtroppo la risposta dell’uomo è spesso orientata all’infedeltà, che si traduce in rifiuto. L’orgoglio e l’egoismo impediscono di riconoscere e di accogliere persino il dono più prezioso di Dio: il suo Figlio unigenito" (Benedetto XVI).
vv. 42-43: E Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture:
La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d'angolo; questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi? Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti.
Viene citato il Sal 117, 22-23 che nella tradizione viene attribuito al rifiuto del Messia. Un Salmo che spesso ripetevano nelle loro liturgie. Un Salmo che anche noi ripetiamo la domenica.
Scartiamo la pietra più importante della nostra vita. Scartiamo il Regno di Dio e cedendolo ad un altro popolo capace di portare frutti, cioè capace di una fede viva ed operante in una prassi d’amore. 
L’espressione «perciò vi dico... sarà tolto e sarà dato...» indica la solennità dell’azione di Dio con cui viene segnata la storia dell’antico d’Israele e quella del nuovo popolo.  Qui “popolo” (ethnos) non sta ad indicare - come di consueto - le nazioni pagane (i gentili) né il popolo eletto (concetto reso con il termine laos), ma la nuova comunità dei credenti: Ebrei e pagani che formano la Chiesa di Cristo; quella comunità che nasce dal costato trafitto di Cristo e dal suo dono all’umanità  dello Spirito Santo, quello Spirito che guida l’esistenza cristiana all’amore Trinitario.

La Parola illumina la vita
Come vivo il mio rapporto con Dio? Quale volto di Dio ricerco nella vita di tutti i giorni?
Quali frutti porto?
Nel mio servizio all’interno della Chiesa (parrocchia, comunità, Diocesi) come mi comporto? Sono tra quelli del “faccio tutto io” oppure vivo la condivisione dell’amore?

Pregare
Hai sradicato una vite dall’Egitto,
hai scacciato le genti e l’hai trapiantata.
Ha esteso i suoi tralci fino al mare,
arrivavano al fiume i suoi germogli.

Perché hai aperto brecce nella sua cinta
e ne fa vendemmia ogni passante?
La devasta il cinghiale del bosco
e vi pascolano le bestie della campagna.

Dio degli eserciti, ritorna!
Guarda dal cielo e vedi
e visita questa vigna,
proteggi quello che la tua destra ha piantato,
il figlio dell’uomo che per te hai reso forte.

Da te mai più ci allontaneremo,
facci rivivere e noi invocheremo il tuo nome.
Signore, Dio degli eserciti, fa’ che ritorniamo,
fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi. (Sal 79).

Contemplare-agire
La parola di Dio non la si può comprendere se Dio stesso non apre il cuore (At 16,14). A noi, però, quell’ordine: “ascoltate!” è adesione con tutto il cuore, con tutta l’anima con tutta la mente. Per non far prevalere la curiosità sull’ascolto, sosta in silenzio davanti alla Parola e lasciati trasportare da Essa nella ricerca del’Essenziale.