venerdì 4 marzo 2016

IL BUON SAMARITANO

Lectio divina su Lc 10,25-37

Invocare
Vieni, Spirito Santo, donaci di comprendere questa Parola che ascolteremo. Parla direttamente alla nostra vita, e rivelaci il progetto di amore che nutri per ciascuno.
Vieni, e apri le orecchie del nostro cuore perché ascoltando la Parola possiamo imparare ad essere davvero discepoli di Gesù, e a scegliere, senza paura, quello che il Vangelo ci chiede.
Vieni, e aiutaci a far entrare con forza questa Parola nella nostra esistenza, perché la trasformi, la renda bella, e tutti possano vedere che anche noi abbiamo incontrato il Signore Gesù che ci ha cambiato la vita. Amen.

Leggere
25 Ed ecco, un dottore della Legge si alzò per metterlo alla prova e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». 26 Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». 27 Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». 28Gli disse: «Hai risposto bene; fa' questo e vivrai».
29Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?». 30Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. 31Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. 32Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. 33Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. 34Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. 35Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all'albergatore, dicendo: «Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno». 36Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». 37Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va' e anche tu fa' così».

Silenzio meditativo: I precetti del Signore fanno gioire il cuore

Capire
Una parabola molto conosciuta, quella del Buon Samaritano e una parola, o meglio un verbo che viene messo al centro dalla liturgia di oggi: il verbo amare. Il verbo amare unito alle due direzioni fondamentali della vita: quella verticale - amare Dio - e quella orizzontale - amare i fratelli -. Qualcuno ha scritto che queste due direzioni ci vengono continuamente richiamate dai due bracci della croce di Gesù... è lui che, con tutta intera la sua vita, ci insegna ad amare.
L’evangelista Luca racconta, all’interno di circa dieci capitoli, l’esperienza di Gesù che si dirige a Gerusalemme. Qui vivrà i giorni della sua morte e risurrezione. Gesù dunque è in viaggio e lungo il suo cammino racconta questa parabola. In particolare in Lc 9, 51 si dice che Gerusalemme è la città verso la quale Gesù «si diresse decisamente». Gesù inizia a seguire con più decisione e consapevolezza il progetto del Padre e questo chiede anche ai discepoli e a quelli che vogliono “ereditare la vita eterna”.
Il contesto più immediato è quello della missione dei 72 discepoli e del loro ritorno da Gesù (10,1-20) con il canto di lode di Gesù al Padre. All’amore del Padre che scende sulla terra (e ai prodigi che compie nella missione dei discepoli) risponde l’amore dei figli e fratelli che si innalza fino al cielo. In questo contesto si innesta la parabola del buon samaritano, sintesi del discorso della pianura: "Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso" (6,36). La misericordia non ha bisogno di un codice di leggi per manifestarsi; dipende solo dalla sensibilità delle persone in relazione alla vita, soprattutto quella dei bisognosi.
La parabola del buon samaritano “riassume una storia ed un’esperienza di amore infinito, tuttora in atto: la storia di Cristo, che per tutti noi si è fatto Samaritano misericordioso e perdonante (Gv 8,48)” (S. Cipriani).

Passi utili alla meditazione
Dt 4,1;6,4-5; 19,21; 24,17,18; Mt 9,13; 12,7; 22,40; 23,4; Sal 1,1-2; 37,21;119,112; Sap 6,18-18; Lc 6,36;14,13-14;22,26-27; 24,27; Mc 12,33; Gal 6,2; Col 3,12-13; Fil 2,5; Gv 5,6; 10,10b-11; Is 1,6; 61,1; 57,18; Ger 8,22; 30,17; Ez 16,8-9;34,16; Lc 15,5-6; 1Cor 6,11.

Meditare
v. 25: un dottore della Legge si alzò.
Il dottore della legge è un esperto di Torah e di questioni teologiche. Egli vuole interrogare Gesù sulla bontà dell'insegnamento che sta diffondendo. Gesù mostra apprezzamento nei suoi confronti, e questo è importante.
Ci possiamo fermare per capire se anche noi siamo “un dottore della legge”.
per metterlo alla prova
Luca scrive «ekpeirázō» che traduce anche il verbo “tentare”; lo stesso accade nel brano parallelo di Mt 22,34-40 (che alcuni traducono: gli domandò insidiosamente). Il richiamo immediato è a Lc 4,2, le tentazioni di Gesù nel deserto; stesso vocabolo ma chi pone le domande è il diavolo.
Per l'evangelista il dottore della legge non è in buona fede perché pur sapendo cosa fare non compie il bene, è infatti «diviso» dalla comunità. È colpevole di omissione mancando gravemente alla carità fraterna, ma è soprattutto in grave pericolo perché dove non dimora la comunione con il Signore e con i fratelli nella fede e nella carità rischia di essere spietatamente divorato dall'«avversario nostro» che: «come leone ruggente gira intorno» (cfr. 1 Pt 5,8).
«Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?».
Gesù viene riconosciuto come maestro. C’è un orientamento verso Dio, verso se stessi.
Il capire chi siamo, provoca la domanda scaturita da dubbi, ritrosie. È l'interrogativo di sempre e di ogni uomo (cf anche 18,18) che ritiene di meritare a partire dalle sue opere (cfr. preghiera del fariseo in 18,9-14). È la domanda del proprio esistere nel mondo: cosa bisogna fare per avere la vita in pienezza?
Il problema del dottore della legge è ereditare la vita, entrare nella vita. Ereditare è il verbo che normalmente viene usato per parlare del rapporto con la terra promessa, la terra nella quale si entra. Se prima ci chiedevamo se anche noi siamo un dottore della legge, adesso possiamo affermare che la parabola è rivolta ad ogni uomo, la parabola è rivolta a ciascuno di noi.
vv. 26-28: Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?».
Gesù da buon maestro non risponde alla domanda, ma stimola, con due semplici domande, il dottore della legge a riandare alle conoscenze che gli appartengono e lo contraddistinguono; lo rimanda alla legge, rimanda l’ascoltatore alla conoscenza della volontà di Dio che si manifesta nel suo comandamento. Essa contiene gli elementi sufficienti per poter sciogliere ogni dubbio.
La seconda domanda, “come leggi?”, in greco anaginṓskō (= leggere, conoscere bene, riconoscere, recitare) indica anche la lettura liturgica, con riferimento alla recita quotidiana dello «Shema’», la preghiera che esprime il credo giudaico che ogni ebreo recitava due volte al giorno (cfr. Dt 6,4ss).
Possiamo anche tradurre per la vita “come vivi?”.
Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso»
La risposta è pronta e istantanea, tipica di chi conosce bene come uno specialista , che in modo esatto rimanda ai due precetti principali della Legge del Signore: amare Lui (Dt 6,5) e il prossimo come se stesso (Lv 19,18). La saldatura dei due passi biblici formano un solo comandamento, la cui osservanza assicura la vita eterna.
La citazione è di grande importanza perché combina l'amore di Dio (agapáō = l'amore che dona tutto di sé) all'amore del prossimo.
Avere la vita eterna è fare il bene, lasciando però che sia Dio a determinare il senso delle nostre relazioni. Se non abbiamo la coscienza che la carità “c’entra” col nostro rapporto con Dio e con gli altri, essa rimane un qualcosa per il tempo libero. Essa invece è una forma del comandamento di Dio e della vita autentica dell’uomo. La carità è il senso e la méta di ogni giorno:
Gli disse: «Hai risposto bene; fa' questo e vivrai».
Gesù impiega lo stesso verbo (poiéō) usato dallo scriba nel porre la questione, ma mentre questi usa il participio aoristo Gesù usa l'imperativo presente per indicare la continuità e la lunga durata del precetto, da osservare non sporadicamente ma sempre.

La parola di Gesù è inequivocabile. Ci invita ad abbattere le barriere e gli steccati che frapponiamo tra noi e tanti altri che secondo i nostri gretti giudizi non meritano di stare a contatto con noi o di essere aiutati da noi. L’amore verso il prossimo non ha confini, del resto, “I confini dell’anima non li puoi trovare andando, pur se percorri ogni strada: così profondo essa ha il logos” (Eraclito). Per questo, l’amore verso il prossimo non deve essere grettamente calcolato secondo i nostri parametri umani. Altrimenti, anche se crediamo di essere cristiani, non lo siamo per niente.
v. 29: Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?». 
In greco è usata una parola che vuol dire "vicino". Vicino può essere un avverbio; con davanti un articolo diventa un sostantivo: il vicino, il prossimo. Se non ha l’articolo può diventare preposizione, per esempio: vicino ad uno, vicino a...
Il dottore della legge dice: “chi è vicino a me”? Qual è il senso di questa domanda? È come se dicesse: “È vero che bisogna amare Dio e il prossimo; io sono disposto a tutto; ho capito, lo so, lo insegno da tanto tempo, questo è il mio mestiere, la mia professione, la mia specialità: amare Dio e amare il prossimo.
Anche noi tante volte, pur avendo delle buone intenzioni, cerchiamo di giustificarci. Non sappiamo come identificare il nostro prossimo ma al contempo siamo disponibili, proclamiamo una generosità che però fatica a diventare atteggiamento stabile. Ed è per questo che Gesù narra la parabola: per strutturare il nostro desiderio, per rendere stabili le nostre intenzioni, per dare competenza alle nostre iniziative, per aiutarci a non essere dei pressappochisti della carità.
Gesù narra se stesso come parabola perché nessuno possa dire: non lo sapevo. Noi pensiamo: a me chi è vicino? A me chi pensa? Di me chi si prende cura? Chi mi sta dietro”? È questo il problema; la parabola, infatti, va proprio in questa direzione: chi si è avvicinato? Chi è vicino a me? Se il comandamento di Dio può apparire come una legge esterna, la storia di Gesù lo precisa in una figura personale.
v. 30: Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. 
Da questo versetto inizia la parabola. Chi è costui che scende da Gerusalemme a Gerico? Di tutti gli altri personaggi ci viene indicata l’identità o il ruolo, di questo personaggio non ci viene detto nulla, soltanto "un uomo" e nient'altro.
Non per caso! È necessario che questo uomo non abbia qualifiche e non deve avere qualifiche perché le qualifiche qui non contano. Non è che la parabola funziona solo se questo uomo ha alcune caratteristiche. Quali siano le sue caratteristiche è assolutamente indifferente! Per questo l’uomo non viene descritto, perché Gesù sta raccontando la vicenda di ogni uomo e donna che camminano in questo mondo. Ogni uomo è portatore di un bisogno, ogni uomo è destinatario della nostra azione. Una cosa però sappiamo: stava tornando da Gerusalemme ed era diretto a Gerico. Cioè, sta andando nella direzione opposta di Gesù. È un uomo che ha sbagliato strada. Gesù sta andando verso Gerusalemme e l’uomo sta andando verso Gerico, in direzione opposta.
Un’altra cosa, al termine del versetto, si dice di quest’uomo: è "mezzo morto", è nel crinale tra la vita e la morte. Forse può vivere, forse morirà, è lì sospeso a metà; vive ma non possiede una vita sicura rischia di morire. Per lui c’è ancora speranza ed è in quella sottile linea di divisione tra vita e morte.
È la situazione in cui tutti ci possiamo ritrovare, compreso il dottore della legge, imbrigliati in situazioni difficili dove non ci si può più sollevare.
vv. 31-32: un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. 
Di fronte alla carità a volte anche noi ci facciamo dei falsi alibi, persino rivestiti di una giustificazione religiosa, come è successo al sacerdote e al levita: essi contrappongono il loro servizio religioso e il culto all’esercizio della carità. Non si accorgono che il culto a Dio è riferito alla comunione con Dio e con gli uomini: culto e carità sono un segno, che in modo diverso costruisce l’unica comunione.
I due evitano il ferito; non si sa il motivo… l’evangelista non lo descrive forse addirittura per obbedienza alla Legge: se infatti il ferito fosse già morto, toccarlo significherebbe cadere in una forma di impurità che la Legge ebraica vietava. 
La parabola contesta le false alternative tra Dio e l’uomo, tra azione e contemplazione, tra preghiera e impegno. Pur nella diversità delle vocazioni l’armonia tra parola e gesto deve sempre essere presente. Ci deve essere equilibrio tra il momento in cui si riconosce la priorità e l’assolutezza di Dio nel culto e nella contemplazione orante e il momento in cui questa assolutezza si fa carne e storia nel riconoscimento dell’altro.
Anche noi "passiamo oltre" quando la necessità della vita cristiana è solo un ripiegamento su di sé, o la religione è solo uno strumento di affermazione, o ancora quando il nostro servizio è solo una forma di gratificazione che non ha stabilità, che è solo efficientismo.Proseguendo sulla nostra strada evitiamo la sfida della carità che chiede di istruirci sul mistero di Dio e sul nostro rapporto con gli altri.
vv. 33-34: Invece un Samaritano, che era in viaggio… 
Da questo punto la parabola comincia ad assumere un'altro volto. Passa un sacerdote; passa un levita, passa un terzo personaggio: uno straniero. È un samaritano, uno di fede imperfetta, se non addirittura un nemico. I samaritani non appartenevano neppure pienamente al popolo di Dio: eppure proprio un samaritano riconosce l’uomo nel bisogno e si china su di lui.
Il Samaritano era in viaggio: questo è il viaggio nel senso forte del termine. Il salmo 84 dice: “Beato chi decide nel suo cuore il santo viaggio”. È il viaggio della salita a Gerusalemme. E qui c’è un samaritano, unico che va controcorrente, che sale. Il Samaritano rappresenta Gesù, è lui il viandante che sale a Gerusalemme.
passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. 
In greco, il verbo “si commosse” è il medesimo con cui si indica la commozione profonda di Gesù a Nain o quella del padre del figlio prodigo nel vedere il figlio tornare a casa. Ecco l’essenziale: chi soccorre il povero si è identificato con l’atteggiamento di Gesù e di Dio, ha capito chi è Dio.
gli si fece vicino.
Qualcuno si fa vicino, fascia le ferite versandovi olio e vino; poi carica il malcapitato sulla sua cavalcatura, lo porta in un albergo e si prende cura di lui.
Questi sono i gesti di compassione e di vicinanza del samaritano. Il provare profonda emozione, il chinarsi, il portare in braccio, il curare e fasciare le ferite ricordano alcuni indimenticabili passi di Osea sull’amore di Dio verso Israele. L’amore di Dio è il centro della legge, ma amarlo vuol dire lasciarsi plasmare da lui fino a far diventare la propria vita una trasparente immagine del chinarsi misericordioso di Dio sulle sue creature.
v. 35: Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all'albergatore, dicendo: «Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno». 
Anche in questo versetto ricordiamo i gesti dell’azione divina. C’è un sovrappiù della carità di Gesù: egli pensa anche al dopo. C’è una caparra e c’è una promessa. Si apre lo spazio e il tempo della nostra libertà in attesa del suo ritorno. È questo il tempo della nostra carità, della possibilità che ci è data di trascrivere la figura del buon samaritano. Il riferimento è alla carità pasquale di Gesù, nella consapevolezza che la "differenza" della carità di Gesù non è un freno ma è la sorgente della nostra missione.
Tutte le forme, piccole o grandi, in cui molti esprimono la loro dedizione, sia nel gesto volontario, sia nella dedizione con cui svolgono il loro lavoro quotidiano, sono frammenti preziosi che alludono all'insuperabile ricchezza del gesto pasquale. Bisogna quindi saper guardare con gli occhi e il cuore di Dio per riconoscere il bisogno e il bisognoso, e fermarsi per servirli. Siamo chiamati a riconoscere l’origine del nostro agire: il nostro operare si fonda nella carità di Dio, che vuole che ogni uomo viva una vita piena. Per questo occorre che l’uomo sia strappato al suo bisogno e sia posto nella condizione di scegliere liberamente per il bene.
v. 36: Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». Gesù ha capovolto dunque la domanda iniziale: la questione vera non è chi è il prossimo, ma chi si è fatto prossimo. Spinge il dottore della legge a partire da un preciso punto di osservazione: a partire dalla situazione dello sventurato. La prossimità non è una situazione, una persona, un fatto ma è una relazione da istituire. Trovare il prossimo significa farsi prossimo, leggere e scegliere i tempi, i momenti, le persone della carità.
Il dottore della legge viene invitato a prendere posizione a sua volta, ma non dalla parte di chi può fare del bene, bensì di chi è nella sventura. Solo dopo potrà operare da prossimo. Solo così ci si introduce seriamente nel concetto di prossimità. Non si può definire il prossimo a partire da se stessi. Gesù fa notare che la carità non è solo un fare ma è un capire, è scegliere: ci vuole una intelligenza della carità.
La carità chiede testa e cuore, chiede di comprendere le cause senza fermarsi solo a tamponare gli effetti.Ci vuole quindi una carità che comprende, che non dà tutto oggi, perché anche il domani ha bisogno di te.
v. 37: Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va' e anche tu fa' così». 
La parola compassione ("patire con") non è l'elemosina di chi è qualcosa verso chi non è nessuno, ma è il vivere insieme la passione della (o per la) vita. Infatti, la sua etimologia ci spinge a sentire dispiacere o male altrui, quasi se soffrissimo noi. Lo scriba questo l’ha inteso bene! Gesù quindi conferma la sua risposta e lo invita a fare altrettanto. La carità è missione, è invio, è un riprendere le orme di Cristo Gesù nella quotidianità. 
Per fare questo Gesù chiede tempo, vuole disponibilità totale, spinge a lavorare ad un progetto comune, ad entrare in una storia, in un stabilità di vita. Questa è la vita eterna: fare lo stesso tragitto che ha scritto Gesù, abitare il luogo della nostra infermità.

La Parola illumina la vita
Anche io, come il dottore della legge: come posso io entrare nella vita, come si entra nel Regno? Come posso io mettermi in cammino su questa strada che mi conduce a Gerusalemme e non a Gerico?
Ma io, come entro nel gaudio eterno? Come eredito la vita?
Che cosa ti spinge nell'offrire amore al prossimo? Il bisogno di amare ed essere amato, o la compassione e l'amore di Cristo?

Pregare
Cristo patì per voi,
lasciandovi un esempio,
perché seguiate le sue orme:
egli non commise peccato
e non si trovò inganno sulla sua bocca;
oltraggiato non rispondeva con oltraggi,
e soffrendo non minacciava vendetta.
ma rimetteva la sua causa a colui che giudica con giustizia.
Egli portò i nostri peccati sul suo corpo sul legno della croce,
perché, non vivendo più per il peccato
vivessimo per la giustizia
dalle sue piaghe siete stati guariti. (1Pt 2,21-24).

Contemplare-agire
Abbandoniamoci all'azione dello Spirito Santo per aderire col cuore e la mente al Signore che con la sua Parola ci trasforma in persone nuove che compiono sempre il suo volere. "Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica" (Gv 13, 17).